Un raro polimorfismo somatopsichico:
anoressia tardiva e dismorfofobia.


(pubblicato in: Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria, n. 24/25, Roma, 1996, pp.3-8)

Bruno Callieri *




La radicale diversità che solo raramente riesce a superare il salto che separa il guardare dal vedere, il sehen (che è clinico) dallo schauen (che è fenomenologico), il percepire dell'appercepire (qui confluiscono, a distanza di secoli, Leibnitz e Merleau-Ponty) si esemplifica in modo davvero singolare nella persona che ho avuto occasione di incontrare come medico e di cogliere nell'irriducibile singolarità della sua situazione e del suo declinarsi esistenziale.
Si tratta di una signora di 73 anni, Giulia, di buon livello socio-economico, madre di un professionista, suo figlio unico, che mi ha trepidamente accompagnato a "visitarla" nella sua abitazione dalla quale, ormai da vari mesi, Giulia esce solo raramente, nonostante le premurose sollecitazioni del figlio.
In valida sintesi egli mi ha riferito la vicenda della madre. Ella ebbe a cinquant'anni, in piena menopausa, un serio stato di depressione, con tristezza, astenia, inquietudine immotivate, per cui venne ricoverata e trattata con psicofarmaci sia per fleboclisi che oralmente. Remissione completa; non più ricadute, per lo meno di rilevanza clinica. La personalità di Giulia viene delineata dal figlio nei parametri della meticolosità, della coscienziosità, della scrupolosità, nell'ambito di un rigido codice etico (richiamando da vicino il typus melancholicus di Uberto Tellenbach).


Giulia è stata sempre attenta a mantenere la linea, a non "esorbitare", ma senza mai esagerare in riduzioni alimentari e senza mai mostrare una vera e propria perdita dell'appetito. Il figlio non sa ben separare in lei l'ambito salutista da quello estetico. La signora ha gestito in modo sempre ottimale il suo ménage, conducendo una vita piuttosto ritirata, accentuatasi dopo la morte del marito, ottimo compagno, avvenuta circa tre anni prima. Negli ultimi 5-7 mesi il figlio, che va a trovarla ogni settimana, si è accorto che lei era divenuta a poco a poco più taciturna, come se fosse sovente soprappensiero o seguisse una costante, inespressa idea. La persona che da tempo ne accudiva quotidianamente la casa gli ha riferito che la mamma passava molte ore in poltrona, con netta diminuzione del suo abituale interesse per la TV, ma con evidente aumento del tempo trascorso a specchiarsi attentamente, a osservarsi soprattutto il volto ma anche il corpo (mi è parso di capire "quasi palpandosi con gli occhi"), con uso aumentato di varie creme estetiche idratanti di cui leggeva sui giornali e riviste, con alimentazione lentamente ma progressivamente ridotta sia in quantità che in calorie, con preferenza netta per diete quasi esclusivamente vegetariane e a base di frullati di frutta. Il mio incontro con la signora Giulia, molto trepidato dal figlio, non è stato particolarmente difficile. Io ero stato sufficientemente edotto delle sue resistenze e diffidenze, soprattutto di fronte ad un'eventuale e quasi scontata prescrizione di farmaci, da lei evidentemente avversati, altre volte. Pur essendo molto parca di parole e usando un tono di voce sommesso, Giulia, visibilmente molto magra, mi ha riferito che preferiva non uscir di casa perché diventata brutta, pesante, con la pelle molto inaridita, secca, specie quella del volto, in particolare del naso. Mi ha detto che, malgrado le creme idratanti, la pelle stava diventando dovunque sempre più arida. Si specchiava spesso, è vero, al bagno e in camera, perché si vedeva e si sentiva imbruttita in tutta la figura, con un naso, specie verso la punta, secco e "ingrossato". La percezione così peculiare del suo naso, rinsecchito e ingrossato nello stesso tempo, la faceva "sentire" brutta (mi è parso che realizzasse una vera e propria dismorfofobia - ricordo Morselli, in primis, e recentemente la "facial ugliness" della Phillips e il contributo di Sturmey, dell'86) e nello stesso tempo l'induceva perentoriamente a ridurre la sua alimentazione "per far dimagrire il naso", su cui si accentuava prevalentemente la sua attenzione, con illusioni dermatoscopiche ("vede come è diventato secco, poroso, screpolato e ingrossato dentro?") e con ideazione prevalente, quasi ossessionante.


Non ho contestato, anzi ho ammesso con souplesse il fatto, inducendola così a comunicarmi altri particolari, del volto e del corpo, il suo ossessionante auto-osservarsi, la sua tristezza per questo inatteso "guaio", la sua ripulsa per il cibo che, secondo lei, "andava soprattutto a deformarle il naso". La sua bellezza ormai se ne era andata, da mesi e in modo irrimediabile. Ha accettato senza esitare, anzi con un accennato sorriso di compiacimento, il mio suggerimento di farsi preparare creme con vitamina A ed E (tipo Rovigon), con creme idratanti e con medicine a base di erbe. L'ho rivista a distanza di mesi un paio di volte, sostanzialmente invariata, in un'atmosfera di incontro sempre cortese ma sempre rarefatta.
In sintesi: persona anziana, senza malattie fisiche, con un lontano precedente psichico (depressivo), notevolmente dimagrita (non "deperita"), con elevato livello di esigenza estetica malgrado l'età, con aumento dell'auto-osservazione ottico-tattico sottesa da evidente anoressia mentale (se così si può dire, come a me sembra) a scopo estetico, soprattutto (ma non soltanto) facciale, con marcato senso di "facial ugliness", di imbruttimento localizzato alle ali e alla punta del naso (metaforico?), proprio in senso dismorfofobico, con reazione depressivo-prevalente, non propriamente melancolica anzi soprattutto sensitiva (nel senso di Kretschmer). Tale osservazione ha sollecitato in me varie riflessioni: psicopatologiche, cliniche, antropologiche.


Anzitutto cliniche nosologiche e diagnostico-differenziali: si tratta di uno sviluppo deliroide dell'esperienza illusionale tattile (come quella della sindrome di Ekbom: Callieri 1992) che si osserva nella sindrome deliroide dermatozoica? oppure siamo di fronte a una forma di "ipocondria circoscritta" di Schwarz o alla famosa "ipocondria di bellezza" di Jahrreiss? Oppure abbiamo a che fare con i problemi di una dismorfofobia tardiva, indicativa spesso di una depressione latente o monosintomatica, di tipo endogeno? ovvero trattasi di una depressione atipica del senio, ad es. pre-sclerotica o pre-atrofica? o, ancora, potrebbe qui realizzarsi una forma peculiare di anoressia tardiva(ben descritta da Nathan nel lontano 1928), anoressia per deformazione ipervalutativa o "prevalente" di certe parti del corpo (le cosiddette macropsie di settore a supposta genesi alimentare, quindi anoressogene - come ben visto da Sturmey e Slade tanti anni dopo)?


In altri termini, è una vera condotta ipocondriaca (Ladee) oppure una delle non rare sitiofobie depressive senili (cui accennò anche Nathan nel suo lavoro del '28) o una nevrosi ossessiva (Pamer e Jones, 1939) o anche un avvio parafrenico (Leon), con la "honte du corps", con il rimorso del nutrirsi legato al "mépris de la chair" (Calvi), e a riti imperativi di verifiche, scongiuramenti, nel vano tentativo di sfuggire ad una sicurezza che la avvolge sempre più nelle sue spire deliranti, con un camuffamento della propria tristezza, con sottostanti idee di indegnità o con taciute voci imperative, di commento e di derisione? Potrebbe, infine, essere anche un modo di reagire inquadrabile in uno shock affettivo legato all'allontanarsi dell'unico figlio, ora sposato e sempre più raro visitatore, o facilitato da questo, che consente alla sua imago corporis di tornar trentenne. Davvero numerose, dunque, le ipotesi diagnostiche qui formulabili.


Vorrei ora accennare al come mi sembra possa articolarsi l'inquadramento psicopatologico di questa peculiare modalità di esistere in cui mi sono imbattuto.
E' noto da molti anni che tratti ipocondriaci, anche marcati, possono informare talune esasperati ideali estetici; ricordavo sopra l'"ipocondria di bellezza", dove appunto l'oggetto o il tema privilegiato dell'investimento ipocondriaco è il culto del proprio corpo in toto o di sue parti: ad es. l'idolatria del muscolo in certi fanatici culturisti (settore in cui ho osservato con una certa frequenza il culto dei pettorali) o l'idolatria della propria figura (o, meglio Gestalt) in alcune indossatrici. L'ipocondria di bellezza diviene fine a se stessa, avulsa dal contesto dei rimandi significativi mondani, anzi incarnata nell'utopica accentuazione fantasmica (o prevalenza percepita) di quella sua particolare datità corporea: il seno, il naso, le natiche, le cosce, il volto.
Nella nostra anziana Giulia il corpo, esperito come impervio verso il proprio interno, appare estremamente aperto all'esterno, come rivelatore di un disagio che, in primis, è estetico. In tal modo il suo esser-corpo mi si ostende come raggelato in sé, come non più chiamato ad aprirsi all'incontro con l'altro da sé. Anche i sentimenti e i pensieri seguono la stessa sorte di chiusura in sé, di ruminazione vana. La freddezza, l'indifferenza o il ridursi degli interessi possono qui essere riferiti, con Paul Schilder, all'aumento delle catexi libidiche narcisistiche, con il ritiro degli investimenti libidici oggettuali (Nunberg), con aggressione contro l'Io, che viene visto e vissuto come imbruttito (pars pro toto), deformato e ingrossato o gonfio pur se disseccato - il naso di Giulia -, inducendo un'insopprimibile pulsione secondaria anoressica, anche se discretamente camuffata nell'inappetenza (o sitiofobia) depressiva. Ma lo specchio, compulsivamente usato e maneggiato, non mente... e obbliga, anzi.


Le recenti vedute in campo psicoanalitico (Buvat, Thomas, etc.) sembrano confermare quanto dicevo in passato (con Castellani e (De Vincentiis, pag. 205), che cioè l'anoressia può sfociare nell'ambito dismorfofobico ben più agevolmente di quanto la dismorfofobia possa portare alla condotta anoressica. (In particolare fu Bergler a insistere sulla razionalizzazione anoressogena delle "misure di difesa", soprattutto nell'ambito dell'economia dell'aggressività
Esiste una pluralità di interpretazioni, di modelli ermeneutici secondo i quali viviamo il corpo. Questi modelli si situano alla frontiera dell'immaginario e degli stereotipi socio-culturali, riportano alla coscienza l'immagine di un oggetto estraneo eppur familiare.


Ognuno costruisce l'immagine del suo corpo secondo la propria peculiare visione (visée, e non vision, direbbe Merleau-Ponty): che c'è di comune tra la kafkiana "Metamorfosi" e la cronaca di una moda? Niente, d'altronde, del corpo vissuto ci sembra accessibile senza la mediazione dei discorsi sociali, di immaginari collettivi e di sistemi simbolici. Come ha detto Fédida oltre dieci anni fa, il corpo può sviluppare una negatività non percepita, che diviene segno e immagine, segno di una nostalgia, che maschera un'ansia profonda e, proprio per questo, si carica di ansie.


Invero nell'anziana signora Giulia la dismorfofobia, che investe il "corpo proprio", il Leib come partner (Blankenburg), può essere considerata come un minaccioso segno premonitore di un più che possibile delirio depressivo-paranoide, divenendo così la corporeità vissuta uno specifico "surrogato di mondo" (il Weltersatz, cui spesso accennava Janzarik), assolutamente anoressogeno, e non meramente sitiofobico. I problemi posti alla 73enne Giulia dal proprio corpo vissuto (nel suo complesso e nei suoi vari settori) indicano inequivocabilmente come l'esperienza del corpo possa variare e fluttuare, indipendentemente dall'età

Certo, è soprattutto nell'età adolescenziale e giovanile che l'anoressia mentale (con la bulimia) è da considerarsi tra le modalità più pregnanti per l'immediata espressività dell'Erlebnis del "corpo proprio". Appetizione della magrezza (appunto "Magersucht") in cui l'integrità estetica magra del proprio corpo si pone come valore perentorio, come scopo illimitato, come unica realtà che interessi; e ciò, va sottolineato, senza differenza d'età, come il caso di Giulia, pur nella sua rarità, dimostra. Il rifiuto progressivo della dimensione intersoggettiva del proprio corpo che si nutre insieme ai corpi altrui non è solo il rifiuto dell'incontro commensale, è il rifiuto del vero coesistere agapico (Ruitenbeck).


Va inoltre ricordato che nell'anoressica flette radicalmente l'esperienza dell'abitualità corporea; per cui i caratteri del proprio corpo (appetitivamente magri), con le sue qualità fisiognomiche e materiche, non sono più scontati, ma debbono essere recuperati di volta in volta, e controllati e verificati e riasseriti (come accade nell'ipocondria di bellezza), secondo una normatività interna cui nulla si sottrae od è di minore valenza; in Giulia il naso ha assunto un perentorio valore di primo piano, fisiognomico, fobico, prevalente anzi onni-invadente.


Quest'esperienza fobica della possibile deformazione di parti del corpo rivela crisi nascoste che coinvolgono l'intera persona e - come soprattutto è per le anoressiche giovanissime - indica il prevalere di un linguaggio somatico intensamente pervaso di emotività e di significanze, sollecitando le più suggestive interpretazioni psicoanalitiche.


Nell'anziana signora Giulia, esistentivamente così impoverita, la frattura (la felure, avrebbe detto Le Senne) dismomorfofobica della sfera estesica (secondo la concezione di Jurg Zutt), cioè la parte laterale e anteriore del naso, incartapecorita al tatto, rigonfia nel tessuto sottostante, deformata e tutto deformante nel volto, diviene un momento altamente rischioso, perché è possibile dell'altrui controllo, controllo cui in pubblico ci si sente inevitabilmente esposti, controllo che rende arduo ogni recupero di privacy: l'autre c'est l'enfer, avrebbe detto Sartre. Donde in Giulia (e in tante altre esistenze analoghe) il ritiro, il withdrawal, che si configura sub specie melancholiae (Eckert e coll.) e che si concretizza nella condizione sensitiva, condizione in cui il corpo non è più celante la propria intimità, bensì trasparente agli occhi indiscreti e malevoli degli altri, con un'enfatizzazione ossessionante connessa ad un inevitabile processo di fisiognomizzazione.


Per completezza teoretica debbo aggiungere il rilievo, che emerge qui imperioso e ineludibile, di una indubbia binswangeriana Verstiegenheit (Kuhn, 1951), cioè dell'irrigidimento, freddo e passionale a un tempo, di una decisione permanente, cioè quella dismorfica del naso e quella della connessa condotta anoressica, la vera Magersucht o appetizione della magrezza, vera e propria tossicomania esplicitantesi sul piano estetico dell'esperienza vissuta (das aesthetisch Erlebnisbereich, di J. Zutt).


Mi pare che in Giulia la costituzione di un'immagine del corpo, davvero peculiare, "garantisce", al di là del corpo stesso e del suo vanificarsi, la perennità di un soggetto. In fondo, per dirla con Claude Reichler dell'Università di Losanna, è il corpo sublime cui si oppone un corpo osceno. Giulia ci mostra che le sue aporie trascinano al riconoscimento di modelli e di "metafore", di cui ha bisogno ogni corpo per accedere al senso, situando in modo specifico la nostalgia di un'impossibile presenza a sé, e accordando al suo simulacro (e alle sue rappresentazioni) un valore epistemico ed estetico fondamentale.
In tal senso il corpo e i suoi infingimenti (per es. la sua valutazione dismorfofobica) sono nello stesso tempo manifestazione di un'assenza e luogo di un'esaltazione (la, da molti prospettata, "maniacalità" anoressica?).


Queste brevi considerazioni psicopatologiche sono certamente sollecitate dal mio zoccolo di base antropologico e dall'apporto di Lorenzo Calvi e di Clara Muscatello e Scudellari, ma anche dall'influsso notevole degli studi di Halmi, Brodland e Loney sulla comorbidità e dell'apporto di un ricco e fecondo pensiero psicoanalitico, che va dalla Palazzoli Selvini alla Bruch, dalla teoresi sottostante alla terapia per i disturbi alimentari (Harper, Giuffré, Van der Linden) all'orizzonte analitico istituzionale, familiare, relazionale (Appeau), e a quello nosodromico e diagnostico (Ratnasurya, del Maudsley Hospital) che tiene anche conto di recenti sintesi (Fagiani e Ravizza, Pavan e coll.).


Tutto questo corpus psicopatologico di base, unito ai dati dell'esperienza personale in molti anni di attività clinica, mi induce a sostenere che nella signora Giulia vada preso in seria considerazione il primum movens, che secondo me è costituito dalla deformazione tematica deliroide dell'esperienza illusionale-tattile (cfr. Callieri 1992 e Fleminger in Brit. J. Psychiat. 1992), che confluisce poi in uno sviluppo psicopatico (nel senso di Bumke) di bellezza. Mi sembra invece che vadano esclusi gli inquadramenti nosologici nel decadimento senile e presenile, l'inizio di un delirio parafrenico con depressione reattiva e lo shock affettivo con la conseguente (relativa) solitudine. Una riserva per la componente ossessiva dell'esperienza resta comunque, anche se in secondo piano.
Nell'anziana Giulia la coesistenza di dismorfofobia e anoressia mi pare l'inquadramento più probabile (peraltro ben descritto nel '86 da Sturmey), anche per il riferimento ai disturbi percettivi (Crisp e Kalury, 1981), disturbi che in Giulia sono ben presenti in tutto il corpo (si pensi ai prolungati specchiamenti - Fallon), con l'imperiosa esigenza di mantenere o recuperare la "linea" (grottesca estetica, ma sempre estetica: ed ecco allora delinearsi, nosologicamente, quest'anoressia sui generis, che chiamerei anoressia tardiva (lasciando da parte fino a prova contraria le sitiergie senili, sintomatiche di altri quadri patologici del senio).


Sulla base di quanto esposto sopra mi sembra doveroso richiamare l'attenzione sui seguenti punti:

Pur tenendo presenti tutte queste possibilità, mi pare che il caso qui presentato possa costituire un esempio della rara "anoressia tardiva" di Nathan.
Riprendendo un'immagine proposta in tutt'altro contesto (quello delle funzioni attanziali) dal linguista francese Greimas, il discorso di Giulia, guidato da una isotopia semantica rigida, prosegue il suo cammino, come persona dramatis, disseminandolo di figure del corpo che ella ha scartato, ma che continuano a vivere la loro esistenza virtuale nel proprio immaginario negato.


*  docente di Psichiatria e docente di clinica delle Malattie Nervose e Mentali, Roma


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