Teatro come tecnologia del sé

(pubblicato in: Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria, n. 27, Roma, 1996, pp.9-17)

Michele Cavallo*




Ma il paradiso è sprangato e il cherubino è dietro di noi.
Dobbiamo fare un viaggio intorno al mondo e vedere se,
forse, da di dietro, da qualche parte, è aperto.
H. Von Kleist, "Sul teatro di marionette"

Le riflessioni che seguono prendono avvio da alcune considerazioni che rintracciano nel teatro temi e procedure utili a una discussione sui possibili sviluppi della psicologia clinica in una direzione non esclusivamente terapeutica, ma "transpersonale" (cfr. Venturini, 1995). Non soffermandoci sulle potenzialità psicoterapeutiche del teatro, ci siamo chiesti se il lavoro dell'attore potesse essere assunto come percorso di trasformazione e di autosviluppo.
Evidentemente il setting del laboratorio teatrale può diventare il luogo ideale per esplorare e studiare i fenomeni di modificazione e di trasformazione della coscienza. Qui le tecniche (corporee, mentali e linguistiche) sono il veicolo per approfondire le diverse possibilità del "sentire" e del "comunicare".
Il training teatrale può essere una efficace via di trasformazione, può essere, in termini foucaultiani, una "tecnologia del sé", una via di perfezionamento e di autorealizzazione.

0. Il setting del laboratorio

A partire dalle avanguardie storiche che avevano provocato un rinnovamento radicale del teatro (nella drammaturgia, nella scena, nella recitazione, nella preparazione dell'attore, nel ruolo sociale del teatro), si è delineato nella seconda parte del secolo uno spostamento dell'interesse per l'oggetto teatro non più focalizzato sul prodotto ma sul processo.
Il "laboratorio", in cui attori e regista lavorano insieme sul training e sulla preparazione dello spettacolo, è diventato la situazione in cui si condensa il significato del teatro. Qui il ruolo del regista-trainer, l'insieme delle variabili spazio/temporali, una codificazione tecnica e una pratica metodica, fanno del laboratorio un vero e proprio "setting". Assumendo la funzione di cornice per le azioni, le emozioni e le relazioni, il laboratorio si propone come "setting" proprio della situazione teatrale, come area transizionale nella quale si "assimilano" e si "accomodano" schemi e strutture di pensiero, di emozioni, di comportamento.

1. Il teatro per rifare la vita

Noi non siamo liberi.
E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa.
Insegnarci questo è il primo scopo del teatro.
A. Artaud

Il teatro era visto da Artaud come luogo in cui dare senso a un disagio o a una sofferenza esistenziale; in quanto la scena offre la possibilità di "rinascere altro", ricomponendo quei dualismi che nella vita quotidiana confliggono. Nei primi anni del secolo le avanguardie non si proponevano tanto di imitare la vita quanto di "rifarla" attraverso una "rifondazione antropologica" dell'Occidente.
Il teatro di ricerca ha fatto propria questa tensione caratterizzandosi come luogo di sperimentazione che in alcuni casi ha portato a un vero e proprio progetto di rifondazione antropologica (Schechner, Grotowski, Barba, Brook).1
La ricomposizione di quei dualismi che avevano segnato l'Occidente, riparte proprio dai laboratori teatrali in cui si vede l'uomo come totalità fisica, mentale, spirituale.2 Si cerca di ricostruire l'unità dell'esperienza attraverso una nuova estetica e nuove metodologie capaci di integrare il soggettivo e l'oggettivo, mente e corpo, reale e immaginario, materiale e spirituale, natura e cultura, disciplina e spontaneità, arte e vita, individualità e collettività, tradizione e ricerca del nuovo. Gli obiettivi che si inseguono esplicitamente sono: