Le riflessioni che seguono prendono avvio da alcune considerazioni che rintracciano nel teatro temi e procedure utili a una discussione sui possibili sviluppi della psicologia clinica in una direzione non esclusivamente terapeutica, ma "transpersonale" (cfr. Venturini, 1995). Non soffermandoci sulle potenzialità psicoterapeutiche del teatro, ci siamo chiesti se il lavoro dell'attore potesse essere assunto come percorso di trasformazione e di autosviluppo.
Evidentemente il setting del laboratorio teatrale può diventare il luogo ideale per esplorare e studiare i fenomeni di modificazione e di trasformazione della coscienza. Qui le tecniche (corporee, mentali e linguistiche) sono il veicolo per approfondire le diverse possibilità del "sentire" e del "comunicare".
Il training teatrale può essere una efficace via di trasformazione, può essere, in termini foucaultiani, una "tecnologia del sé", una via di perfezionamento e di autorealizzazione.
A partire dalle avanguardie storiche che avevano provocato un
rinnovamento radicale del teatro (nella drammaturgia, nella scena,
nella recitazione, nella preparazione dell'attore, nel ruolo sociale del
teatro), si è delineato nella seconda parte del secolo uno spostamento
dell'interesse per l'oggetto teatro non più focalizzato sul prodotto ma
sul processo.
Il "laboratorio", in cui attori e regista lavorano insieme sul training e
sulla preparazione dello spettacolo, è diventato la situazione in cui si
condensa il significato del teatro. Qui il ruolo del regista-trainer,
l'insieme delle variabili spazio/temporali, una codificazione tecnica e
una pratica metodica, fanno del laboratorio un vero e proprio
"setting". Assumendo la funzione di cornice per le azioni, le emozioni
e le relazioni, il laboratorio si propone come "setting" proprio della
situazione teatrale, come area transizionale nella quale si
"assimilano" e si "accomodano" schemi e strutture di pensiero, di
emozioni, di comportamento.
Il teatro era visto da Artaud come luogo in cui dare senso a un disagio
o a una sofferenza esistenziale; in quanto la scena offre la possibilità
di "rinascere altro", ricomponendo quei dualismi che nella vita
quotidiana confliggono. Nei primi anni del secolo le avanguardie non
si proponevano tanto di imitare la vita quanto di "rifarla" attraverso
una "rifondazione antropologica" dell'Occidente.
Il teatro di ricerca ha fatto propria questa tensione caratterizzandosi
come luogo di sperimentazione che in alcuni casi ha portato a un vero
e proprio progetto di rifondazione antropologica (Schechner,
Grotowski, Barba, Brook).
La ricomposizione di quei dualismi che avevano segnato l'Occidente,
riparte proprio dai laboratori teatrali in cui si vede l'uomo come
totalità fisica, mentale, spirituale.
rinnovare il "sentire", l'esperienza (sia dell'attore che dello spettatore), attraverso una continua reinvenzione linguistica e tecnica;
rappresentare una nuova realtà che muta continuamente e non è più rappresentabile con i canoni naturalistici;
modificare il modo abituale, ordinario di percepire e rappresentare il mondo, per poter cogliere piani diversi (e più profondi) della realtà;
fare dell'opera un fenomeno universale (e spirituale), superando la frammentata molteplicità del reale (paradossalmente proprio facendo appello a questa molteplicità);
restituire all'arte la sua funzione di esperienza condivisa da una comunità, attraverso la sua funzione trasformativa (il riferimento ai riti tradizionali è una costante);
non-rinuncia al compito di rappresentare un ordine del mondo, da scoprire sotto la pelle del visibile;
critica dell'ordine già conosciuto, convenzionale e non trasformativo, attraverso un processo di frantumazione delle forme, mirato a cogliere la elementarità e l'universalità dell'esperienza;
azzeramento degli elementi saturati dalla cultura moderna e recupero di pratiche e tecnologie di altre culture per creare nuove realtà; è l'arte che inventa nuovi mondi attraverso l'invenzione linguistica e la creazione di contesti comunitari (qui le esperienze non mirano alla ripresentazione, alla rappresentazione, alla recitazione ma alla invenzione di altre esperienze, di altri mondi);
liberare la personalità dell'attore dalle abitudini psicologiche e corporee, attraverso un apprendimento negativo teso al decondizionamento, al superamento dei propri confini psico-fisici: la via per recuperare la spontaneità e la dimensione creativa;
produrre, mediante procedimenti sperimentali nei "laboratori scientifici", fenomeni e stati più autentici e intensi di quelli naturali, "per esserci teatro la vita deve essere presente in modo più forte" dice P. Brook;
un teatro come luogo di verità, luogo protetto dove poter smontare
il proprio io e attingere alle risorse più extraordinarie e misteriose
dell'individuo (cfr. Valentini, 1989).
Non scegli un mestiere soltanto per vivere la tua vita [...], scegli un mestiere perché
devi avere una certa attitude umana nel breve spazio di tempo tra la vita e la morte,
ed è meglio esserne coscienti. [...] C'è un modo per iniziarti alla pratica, un modo
per praticare e un modo per avvalerti della pratica, per essere non soltanto un
attore, ma un uomo: per giustificare cioè la tua esistenza (Jouvet, pp.
288-289).
I laboratori teatrali diventano luoghi dove si rifanno i corpi, liberando
l'uomo dai suoi automatismi. Ovviamente non è il corpo anatomico
che interessa l'attore ma il vissuto corporeo, l'esperienza corporea
fatta di sensazioni corporee, l'immagine corporea, lo schema
corporeo, le emozioni.
Possiamo dire che il training dell'attore si applica a modificare e
modellare tre dimensioni del corpo:
1) il vissuto del corpo
2) la rappresentazione del corpo
3) l'utilizzo del corpo.
In particolare il terzo punto è sviluppato attraverso "tecniche del
corpo"
Il pensiero nel teatro è orizzontale (orale, dialogico, comunicativo). E'
un pensiero narrativo, basato sulla metafora e sui processi abduttivi
(empatia, analogia). Pensiero concreto, corporeo, operativo
contrapposto al pensiero logico-discorsivo. Tuttavia
lo sviluppo del pensiero non-verbale non costituisce una minaccia per quello verbale
[…]. Quello che sto cercando di argomentare è la coesistenza di diverse forme di
pensiero, e un uso discriminato di queste diverse forme a seconda degli obiettivi.
Ciò significa, almeno per me, che il pensiero corticale - cioè razionale - è e rimane
importantissimo. […] I lavori più riusciti del teatro postmoderno attestano questo
desiderio di includere, non di escludere, di allargare la gamma del pensiero, della
tecnica teatrale, del linguaggio, di ogni tipo di linguaggio (Schechner, p.
170).
Diverse forme di pensiero sono operanti nel lavoro dell'attore: un
pensiero verbale, un pensiero spaziale, cinestesico e musicale-ritmico,
un pensiero auto-osservante, un pensiero relazionale e
interpersonale
1) conoscenza delle proprie emozioni,
2) controllo delle emozioni,
3) motivazione di se stessi,
4) riconoscimento delle emozioni altrui,
5) gestione delle relazioni.
Inoltre il lavoro metodico e integrato sulla concentrazione e
l'attenzione, sulla consapevolezza, sullo stato di coscienza,
sull'immaginazione e la creatività, tende a far emergere una "nuova
mente", orientata alla integrazione e all'autorealizzazione. Attraverso
la ristrutturazione dell'assetto dei sottosistemi psicologici nella loro
configurazione ordinaria, si giunge a una trasformazione della
coscienza; all'interno del setting-laboratorio si applicano tecniche che
portano alla modificazione della coscienza e che, in quanto parte di
una pratica (intenzionale, metodica, organizzata e finalizzata),
portano alla "trasformazione" di sé (cfr. Venturini, pp. 351 ss.).
Il setting del laboratorio teatrale per sua natura si propone come
spazio/tempo separato dalla quotidianità. In tale situazione si ha una
sospensione della vita quotidiana a favore di una esplorazione-
costruzione di modalità diverse non solo di pensare, percepire,
muoversi ma anche di interagire; le normali regole che orientano le
interazioni sociali e comunicative vengono messe in discussione, o
comunque sono ridefinite. Il rimodellamento della sfera esperienziale
investe, oltre al corpo, alla mente, al linguaggio, anche le relazioni o
meglio gli "schemi di relazione interpersonale"
La trasformazione degli "schemi interpersonali" porta a una
estensione di questo nuovo modello di interazione anche fuori dal
laboratorio, nella vita quotidiana; in questo senso la pratica teatrale
può divenire una pratica di vita solo se nel contesto laboratoriale si
crea una "comunità teatrale" che condivide un progetto di
autosviluppo. Si può intendere la nozione di comunità (Pedace, 1996)
in molti modi (etnica, linguistica, famigliare, religiosa, linguistica), ma
qui viene evocata in un senso che può essere vicino alla "comunità
degli amanti" o alla "comunità dell'amicizia" o al "sangha" (la
comunità di coloro che, all'interno della cultura buddhista, aspirano
allo stato di Buddha, o, per estensione, allo stato di "perfezione"). In
tutti questi casi, coloro che vi partecipano condividono un progetto di
cambiamento; in più la "comunità teatrale" persegue un'utopia di
comunicazione totale, trasformativa
Il lavoro dell'attore consiste in un'espansione del proprio mondo
interiore che può arrivare a estendersi al mondo esterno. E' un fluire
di energia libera, perché non più impiegata per difendere una
monolitica immagine dell'Io. Ma come arriva l'attore a fruire di questo
stato?
Recitare la storia non basta, è indispensabile allargare il nostro orizzonte. Se
alziamo la testa, vediamo l'immensa distesa dell'universo. Se la abbassiamo vediamo
la realtà della vita di ogni giorno, con i suoi problemi sociali, politici ed economici.
Tra questi due mondi il teatro deve fare da ponte. Un attore deve essere consapevole
della realtà dell'universo come della realtà quotidiana (Oida, p.
72).
Per L. Jouvet l'attore nella sua vita attraversa diverse fasi in cui è
evidente questa espansione progressiva del suo mondo interno,
rispetto all'interpretazione:
in una prima fase egli vive in uno stato di ignoranza di sé. L'illusione
dell'impersonazione, di voler essere un altro, offusca la sua
personalità. Crede ingenuamente che Oreste, Amleto o Alceste
attendano lui per animarsi.
La seconda fase è caratterizzata dal disincanto: inizia a rendersi
conto che quella trasposizione di sé stesso in un altro è illusoria; la
sua frenesia esibizionistica lascia il posto a una sorta di coscienza.
Incontra se stesso, si scopre e prende coscienza di ciò che fa e del suo
complesso ruolo di strumento e strumentista, comprende che la sua
esibizione sulla scena è «funzione del pubblico che lo ascolta, dei
compagni che gli danno la battuta e del personaggio che deve recitare»
(p. 54). Comprende di simulare, di essere insincero, di essere doppio:
di muoversi tra l'essere e l'apparire, «in una dislocazione forzata e che
quello che all'inizio chiamava arte è innanzi tutto una pratica, un
mestiere» (ibidem).
Infine la terza fase è quella che si raggiunge più raramente e la più
difficile da comprendere. E' la fase in cui l'attore domina la sua
sensazione. Tutto quel che provava nella seconda fase, si distilla e si
sublima ulteriormente fino al culmine estremo di una sensazione che
Jouvet definisce intuitiva. «L'attore, con una singolare indipendenza,
si accosta al sentimento drammatico. Trovando il senso del proprio
mestiere, può allora dar senso alla propria vita» (p. 54).
Estraiamo questa espressione dagli ultimi lavori di M. Foucault in cui
lo studioso ha indagato come storicamente e biograficamente l'uomo
trasforma sé stesso in soggetto. Il campo è quello dell'investigazione
delle diverse pratiche che
permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l'aiuto degli altri, un
certo numero di operazioni sul proprio corpo o sulla propria anima - dai pensieri, al
comportamento, al modo di essere - e di realizzare in tal modo una trasformazione
di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza,
saggezza, perfezione o immortalità (p. 13).
Il setting del laboratorio teatrale si caratterizza in quanto in esso si
persegue un cambiamento.
Possiamo intendere il cambiamento in due modi: a) come "cura",
modificazione di uno stato patologico (o di disequilibrio) in uno stato
più adattivo (campo della psicoterapia e della psicologia); b) come
trasformazione della coscienza (stato a cui i mistici, molti sciamani,
alcuni yogi, sembrano giungere).
In tale accezione il cambiamento come guarigione oppure come
autorealizzazione può essere associato rispettivamente alle due
diverse forme di apprendimento batesoniane: deutero-apprendimento
e apprendimento3. Quest'ultima modalità di apprendimento potrebbe
dar conto di tutte quelle operazioni che l'uomo fa per cambiare il suo
sé, il proprio essere al mondo. L'apprendimento 3 è stato introdotto
da Bateson proprio in riferimento al cambiamento del sé:
Voglio inoltre concentrare l'attenzione su quel genere di ricezione dell'informazione
(lo si chiami pure apprendimento) che è l'apprendere cose sul sé in un modo che può
condurre a un qualche cambiamento del sé. In particolare prenderò in
considerazione i cambiamenti di confine del sé, e magari anche la scoperta che non
vi sono confini o forse che non esiste un centro (1979, p. 178).
In questo senso il teatro può essere una vera e propria "disciplina"
caratterizzata dal rispetto di un insieme di regole e dall'esercizio di
una serie di pratiche (cfr. Venturini, p. 368). Possiamo allora parlare di
una "tecnologia teatrale del sé", una teoria delle tecniche (del corpo,
della mente, della parola) che comprende le motivazioni, le finalità e i
modi di impiego delle tecniche specifiche.
R. Schechner (1984) afferma che nelle rappresentazioni teatrali
avvengono due tipi di cambiamenti: trasporti e trasformazioni:
Le performance che producono dei cambiamenti nei performer si potrebbero
riconoscere come "trasformative", quelle invece dove essi ritornano ai loro punti di
partenza, "trasportative". Infatti durante la performance gli attori "sono condotti
altrove", e una volta rilassati (spesso con l'aiuto di terzi) rientrano nella quotidianità
donde sono partiti (p.185).
Nell'ambito dell'antropologia teatrale sono riconosciute come
trasformative le performance rituali e/o i riti di iniziazione e
trasportative le performance del teatro occidentale, ma questa è solo
una distinzione sommaria in quanto in ogni tipo di performance
coesistono questi due aspetti, e spesso sono solo le aspettative
culturali che determinano questa differenza. Quello che
costantemente può variare è il grado di
trasporto-trasformazione
durante uno spettacolo teatrale o fra i vari tipi di performance.
Mentre nel rito di iniziazione la trasformazione dell'adepto è radicale
(coinvolgendo il suo status sociale: da adolescente ad adulto, da
guarito a guaritore ecc.), nel teatro occidentale questa trasformazione
è molto contenuta. Nei diversi casi possiamo parlare di
"modificazione (temporanea) della coscienza" come "trasporto" e di
"trasformazione (permanente) della coscienza" come
"trasformazione".
Anche il ruolo del pubblico è diverso. Nei riti di iniziazione tutto il
villaggio è presente e partecipe, spesso molti spettatori sono parenti
diretti dell'adepto/attore. Questo fa sì che il coinvolgimento dello
spettatore è tale che ciascuno di loro desidera la trasformazione
dell'adepto durante la rappresentazione.
Il gruppo o la comunità non si limita, in queste performance, a ‘fluire' all'unisono,
ma cerca, più attivamente, di comprendere se stesso per trasformarsi. Questa
dialettica tra ‘flusso' e riflessività caratterizza i generi della performance: una
performance riuscita di qualsiasi genere trascende l'opposizione fra schemi di
azione spontanei e autocoscienti (Turner, p. 181).
Nelle rappresentazioni del teatro antropologico si tenta di recuperare
il ruolo attivo dello spettatore: egli partecipa attivamente allo
svolgimento della performance. Lo spettatore insieme all'attore viene
coinvolto nello stato di flusso-riflessività creando il terzo polo della
rappresentazione teatrale: testo, attore/personaggio, spettatore. Così
che una performance riuscita coinvolgerà lo spettatore al punto di
modificare il suo stato di coscienza e promuoverne una
trasformazione.
In questo modo l'efficacia estetica della performance diventa un
criterio di "verifica" e bilancio della qualità del lavoro dell'attore e del
regista riguardo alla totalità dei risultati perseguiti nel lavoro di
laboratorio. In ultima istanza la maturità e la profondità del lavoro
dell'attore su se stesso sono verificate da un "ci credo—non ci credo"
(Stanislavskij), "funziona—non funziona" (Grotowski): un criterio
puramente estetico per saggiare una metamorfosi della coscienza.
Il training tecnico è necessario per liberare il corpo dalle sue abitudini
quotidiane
dapprincipio la sua persona gli è soltanto d'ostacolo, ma col lavoro costante egli
acquista la padronanza tecnica dei propri mezzi psichici e fisici con i quali può
consentire alle barriere di cadere. L'"auto-penetrazione" da parte del ruolo è in
rapporto al coraggio: l'attore non esita a mostrarsi esattamente com'è, perché
capisce che il segreto della parte gli richiede di aprirsi, di svelare i suoi segreti
(Brook, p. 72).
Per Grotowski (1977) la preparazione dell'attore deve tendere a: 1)
stimolare un processo di auto-penetrazione, 2) permettere di
disciplinare e convertire in segni tale processo, 3) eliminare le
resistenze psico-fisiche. In particolare su questo ultimo punto precisa
come la costruzione di una nuova personalità passa attraverso la
decostruzione della vecchia:
crediamo che la realizzazione di questa individualità non avvenga tramite
l'apprendimento di cose nuove, ma piuttosto con la rimozione di vecchie abitudini.
Per ogni singolo attore deve essere localizzato quel fattore che blocca le sue
associazioni interiori, causando in tal modo la mancanza di decisione, la confusione
dei mezzi espressivi e la carenza di disciplina; quel fattore che gli impedisce di
provare un sentimento di libertà personale, e la consapevolezza che il suo organismo
è completamente libero e potente e niente è oltre le sue
possibilità (p. 149).
Tuttavia la via negativa pur essendo un metodo (basato
sull'autoconoscenza e il superamento degli ostacoli personali) varia a
seconda delle persone: è un metodo aperto. Gli esercizi diventano un
pretesto per elaborare una forma personale di allenamento. Una volta
che l'attore ha individuato le sue resistenze che lo ostacolano nel
processo creativo, può usare determinati esercizi per superarle. La
via negativa è un processo di eliminazione. Così gli esercizi fisici non
sono finalizzati alla performance atletica ma all'annullamento degli
ordinari limiti del proprio corpo.
In che modo ottenere dentro di sé la trasformazione [...], questa modificazione
interiore grazie alla quale ci è possibile orientarci per ascoltare, percepire, uscire da
noi stessi ed essere disponibili verso gli altri, verso la disposizione di un altro?
L'esproprio di te stesso che il sentimento di un'esistenza più viva, più reale, ti
provoca, esproprio del me, per lasciar sgorgare e apparire il sé interiore che la nostra
ansia e i nostri ragionamenti troppo spesso relegano in fondo a noi stessi,
addomesticato, disprezzato, eppure molto più a conoscenza di tutti i segreti della
casa di quanto non lo sia il padrone. La cosa più importante è lo stato d'animo,
l'atteggiamento interiore, spirituale, una maniera d'essere interiore, una
disposizione a, un orientamento che pone l'essere in stato di sospensione, in una
condizione d'attesa particolare, speciale, un'attesa diversa da ogni altra, [...] una
sorta di meditazione di primo grado prima nel corpo che trascina lo spirito [...]. Quel
che il corpo e lo spirito trovano grazie a dei movimenti orientati ha valore solo se
possiamo immediatamente recuperarlo, sistemarlo, incanalarlo all'interno di quel
che la meditazione ci ha permesso di conoscere (pp. 153-154).
Il mistico, l'uomo che si è sforzato di spogliarsi fisicamente [e psicologicamente] di
se stesso, poco a poco, grazie a un pensiero intenso, giunge a uno stato superiore, a
una sublime distrazione; è allora che può sopraggiungere un attimo di grazia, di
visitazione, nel quale egli si sente realmente benedetto dentro di sé da qualche cosa
che lo abbaglia.
Se riuscite a esercitare questo mestiere nel modo che vi indico, con questa
preoccupazione, potrete ricevere d'un tratto, recitando, un'illuminazione,
un'intelligenza profonda: siete come illuminati su quello che accade dentro di voi e
si compie fuori di voi. [...] Le illuminazioni del comédien non sono dell'ordine del
pensiero, ma del sentimento, della sensazione. Se perseverate in questo esercizio, se
continuate a cogliere questi stati caldi e ardenti nel cuore della rappresentazione,
otterrete - grazie a una crescita interiore - una certezza della sensibilità, una
conoscenza intuitiva (Jouvet, p. 264).
L'estinzione delle abitudini personali è individuata come metodologia
creativa anche da Jouvet, quindi.
M. Cechov parla di Io Superiore a proposito di "individualità
creativa":
L'interprete è sempre condizionato dalle proprie esperienze passate e dal modo
abituale di agire. Può però imparare a rompere gli schemi consueti e a operare
nuove scelte. Il richiamo all'individualità creativa consente all'attore di mettere
temporaneamente da parte la sua personalità immediata e quotidiana ed
espandere la sua gamma di possibilità sceniche e di azioni fisiche (Gordon, p.
111).
Parlando dell'energia E. Barba dice che «immaginare la fonte precisa
dalla quale si irradia l'energia, vuol dire crearsi una resistenza. Obbliga
l'attore a distruggere i movimenti e le reazioni automatiche
(quotidiane) e a creare un'architettura di tensioni e un dinamismo che
appartengono all'extra-quotidiano del teatro» (1993, p. 116).
Se un attore si identifica completamente nel ruolo, il risultante stato
di identità stabilizza il suo stato di coscienza rendendolo
impermeabile al resto (il compagno, la scena, il pubblico);
l'identificazione conduce a una percezione selettiva in cui vengono
ignorate alcune percezioni che potrebbero attivare altri stati di
identità.
In realtà il lavoro dell'attore consiste proprio nel rendere fluidi i
diversi "stati di identità", allenando la facoltà di passare da uno stato
all'altro e attivare percezioni diverse. Tale facoltà non è prerogativa
esclusiva dell'arte della recitazione, per lo psicologo C. Tart l'uomo
normalmente
non può avere un 'Io' permanente ed unico. Il suo 'io' cambia velocemente come i
suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi umori, ed egli commette un errore profondo
quando si considera come se fosse sempre una sola e stessa persona; in realtà egli è
sempre una persona differente; non è mai quello che era un momento prima.
L'uomo non ha un ‘Io' permanente ed immutabile. [...] L'uomo è una pluralità. (p.
173).
Lo sdoppiamento. La caratteristica che si impone quando si pensa
all'attore è la sua tendenza alla dissociazione o meglio allo
sdoppiamento, questa facoltà di uscire dal suo io ordinario e
percepirsi diverso da se stesso, può essere letta come la capacità di
"dividere l'attenzione" tra io e non-io. La capacità di sdoppiamento è
ciò che consente all'attore di risolvere il "paradosso" diderotiano,
accettandolo e, anzi, facendone lo strumento principe della capacità
interpretativa. «Il presupposto di tale "sdoppiamento", è che l'attore
non si immedesima col personaggio ma si accoppia ad esso in una
modalità interpretativa. l'interpretazione è una
"amplificazione" che
consiste nel porre una "distanza" tra la propria recitazione e se stesso,
in quanto istanza critica e voyeristica» (Bonaparte, p. 111). Tra l'altro
nella situazione teatrale l'attore non è l'unico a vivere tale stato,
come nota Jouvet «Uditore, attore, autore, tutti e tre vivono uno
sdoppiamento, una dualità in cui l'anima e il corpo separati, divisi,
disgiunti, lasciano entrare attraverso la breccia che li divide i
fantasmi del teatro» (p. 204). La concezione di un "io forte" che vede
nell'identificazione la tecnica principale dell'attore, ha da tempo
ceduto il posto a una concezione più dinamica, già Mejerchol'd
enunciava la necessità di
Sbarazzarsi una volta per tutte delle parole: immedesimazione, impersonificazione,
temperamento e così via, parole che non significano assolutamente nulla. Costruire
un personaggio significa sdoppiarsi in due parti: la prima è il prodotto della
realizzazione, la seconda è l'artista che crea e osserva criticamente la propria
creazione (p. 70).
L'attore sulla scena vive attraverso un doppio mondo, in due mondi: nel mondo del
personaggio da lui costruito e nel mondo del proprio io (p. 93).
"Non immedesimarsi troppo in una parte" sembra un principio
perseguibile al di là della professione attoriale. L'identificazione totale
in un ruolo sociale o in una identità troppo egoica soffoca ogni
possibilità di esperienza evolutiva. La consapevolezza della
"illusorietà delle parti che recitiamo nella vita quotidiana" e la
disidentificazione porta a distribuire opportunamente i propri
interessi e le proprie potenzialità (l'attenzione potrà distribuirsi in
"parti" diverse e mai sperimentate, dando nuove occasioni evolutive).
«Per farlo occorre anzitutto disidentificarci dai contenuti e dalle varie
funzioni della psiche, dalle varie subpersonalità. [...] A questo scopo è
di grande aiuto l'Esercizio di disidentificazione e di
autoidentificazione
Il rito e la performance teatrale, al di là di tutte le somiglianze-
differenze, condividono una fondamentale caratteristica: mettono in
campo la molteplicità dei linguaggi. Ovviamente ciò comporta la
messa in campo delle diverse modalità dell'esperire: corporeo,
sensoriale, cinestesico, gruppale. La multidimensionalità
dell'esperienza è riconosciuta e resa operativa dai performer e dai
partecipanti, attraverso l'uso dei linguaggi più diversi: corporeo
(mimico, gestuale, cinesico), pittorico-cromatico, musicale, vocale-
canoro, narrativo, visuale-scenografico, plurisensoriale (tattile,
olfattivo, gustativo, uditivo, visivo, cinestesico).
Esiste, al di là del teatro-laboratorio, una tradizione "pura" di teatro
come tecnologia del sé? Probabilmente il teatro tradizionale
giapponese può fungere qui da modello astratto per assumere la
possibilità del teatro come "via", come percorso di formazione e di
trasformazione. All'interno della visione buddhista della spiritualità,
propria del teatro Nõ, infatti, il fine supremo sembra essere l'unione
più profonda possibile con la sostanza del Buddha. Questa importante
finalità della via del Nõ può essere raggiunta però «solo se si realizzano
certi presupposti fondamentali. Inoltre, il maestro deve rimuovere gli
ostacoli e prescrivere delle regole che debbono essere
scrupolosamente seguite, in accordo con la tradizione pura. Esiste
tutto un percorso da seguire in relazione all'età e all'abilità del
candidato» (AAVV, 1986, p. 202).
*
Psicologo
1 Qui l'interesse antropologico all'Altro non è teso a una assimilazione (renderlo familiare, comprensibile) ma
anzi a una autoestraniazione: rendere insolito il familiare.
La conoscenza di sé non esiste. La formula "Conosci te stesso" vuol dire piuttosto
"Approfondisci te stesso". [...] Non si accede alla conoscenza di sé, bensì a una
pratica di se stessi, in funzione di quella dualità che rappresenta una ricerca
importante nella vita di ogni uomo. Il pensatore, l'intellettuale riesce ad arrivare ad
uno sdoppiamento particolare, e cerca un approfondimento di sé, una sorta di
conoscenza di sé, attraverso quello sdoppiamento. [...] Il principio della professione
è quello di fuggire da se stessi, all'inizio, per tentare in seguito di ritrovarsi.
Tuttavia, la cosa da temere è che, di lì a qualche tempo, si produca un nuovo
automatismo. L'attore diviene un automa, incosciente dello sdoppiamento. [...] Ma
se all'inizio saprete giungere a quello stato di sdoppiamento, se saprete esercitarlo -
ognuno di voi a modo suo -, allora potrete esercitare il vostro mestiere con la
coscienza di ciò che fate; potrete inoltre perfezionare la vostra tecnica
professionale, e trovare allora sul piano intellettuale, sul piano sensibile, emotivo,
risorse che l'automatismo non vi darà mai, in modo particolare in vista della ricerca
e dell'esecuzione del ruolo (p. 272).10. Rito, performance: l'integrazione dell'esperienza
Giacché vi sono radici che affondano oltre il quotidiano,
il linguaggio poetico e l'uso rituale del ritmo
ci mostrano quegli aspetti della vita
che non sono visibili in superficie.
P. Brook
Schechner identifica le motivazioni che stanno alla base del teatro
antropologico, nell'interesse per la ricerca dell'integrazione, della
totalità:
della persona, superando la separazione mente/corpo;
della comunità, superando la dispersione individualistica;
ecologica, superando il dualismo uomo/natura.
Inoltre cita l'esperienza religiosa come modo per giungere
all'autorealizzazione attraverso la partecipazione: il misticismo, lo
sciamanismo, le esperienze psichedeliche, lo zen, lo yoga, sono
invocate quali pratiche che rendono più significativa ogni esperienza.
Presso i popoli nativi, secondo Schechner, l'esperienza si dà nella sua
interezza e trascende ogni nostra categoria classificatoria (artistica,
religiosa, fantastica), essendo partecipe contemporaneamente di tutti
i livelli della realtà. Citando E. Cassirer, rileva come in questi
contesti «per una improvvisa metamorfosi tutto si può trasformare in
tutto. Vi è la profonda convinzione di una fondamentale e indelebile
solidarietà di vita che lega la molteplicità e la varietà delle sue singole
forme» (p. 49).11. Un esempio orientale: il teatro Nõ
Ogni mestiere può essere il supporto di una
realizzazione spirituale.
T. Burchardt
a) La vocazione (capacità oggettive e una disposizione soggettiva
all'impegno);
b) Esclusività dell'impegno;
c) Impegno perpetuo, per tutta la vita;
d) Regole di vita e divieti fondamentali;
e) Imitazione e guida di un maestro;
f) L'innocenza del principiante non va mai dimenticata;
g) Il lavoro rispetta i cicli di vita;
h) Livelli di recitazione: dal più semplice ed esteriore al più profondo e
interiore (il "cuore").
In particolare, questo ultimo punto sui livelli di recitazione appare
particolarmente interessante, in quanto Zeami stesso suggerisce che
anche il fascino misterioso dei momenti di non-azione si cela nel
"cuore" (kokoro). Questo termine «racchiude concetti quali il
sentimento e l'emozione, l'anima e lo spirito, la mente e il processo di
conoscenza oggettiva, la consapevolezza ed il sé, l'intento e la
volontà, una mente pura ed inconscia ed uno stato spirituale che sta a
rappresentare i livelli più profondi dell'essere totale» (ivi, 209). E'
interessante notare come in questa nozione è già contenuta tutta la
operatività della nozione di "integrazione dell'esperienza" di cui si
parlava al ß 10. Secondo gli insegnamenti di Zeami, infatti, è possibile
individuare quattro principali livelli del kokoro:
1) L'emozione e il sentimento (yugen);
2) la mente discernente, autoconsapevole, esperta, capace di
osservare cosa è bene e cosa è male in una esecuzione (yojin);
3) il cuore del vuoto, inconscio e spontaneo, trascendenza degli
opposti, la rappresentazione del sublime, del misterioso (myo);
4) il cuore che tutto comprende, profondo e spirituale, è il
coinvolgimento totale dell'intero sé (è il vero kokoro).
I vari aspetti del "cuore" compaiono ed agiscono a diversi livelli
nell'artista: emozionale, razionale, relazionale, intuitivo, sublime-
spirituale. La realtà rimane la stessa: è l'artista che attraversa fasi o
livelli di abilità e di percezione, per poi eventualmente divenire una
cosa sola con il cuore di tutte le cose, seguendo spontaneamente il
ritmo dell'Uno. L'Uno è l'intero processo che include ogni cosa, l'inizio
e la fine, l'emozionale e il razionale, il sublime e il non-sublime.
«Il grande maestro è l'artista illuminato il quale ha compreso
intuitivamente la sua unità con l'origine e porta a tal punto tale unità
che ogni cosa (nella sfera dei fenomeni) diviene mu (il nulla) e ku (il
vuoto)» (AAVV, p. 211).
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2 Il teatro per J. Grotowski «è al tempo stesso, un atto
biologico e un atto spirituale» (1970, p. 78).
3 La formula "vissuto corporeo" si oppone alla concezione che vede il corpo come oggetto, cosa; la persona
non ha un corpo è il corpo, in questo senso è possibile parlare di un "soggetto incarnato" o di una "mente
incorporata". Tale attenzione porta a riaprire il capitolo della "spiritualità del corpo", che la scienza aveva
rimosso e che solo nelle tradizioni religiose e sapienziali è rimasto
aperto (cfr. Venturini, 1995).
4 Nella doppia accezione di "schema corporeo" e di "immagine corporea" (a questo proposito cfr. Ruggieri
V., Fabrizio M. E., La problematica corporea nell'analisi e nel trattamento dell'anoressia mentale, EUR, Roma,
1994).
5 Questa formula è dell'antropologo Marcel Mauss: «Intendo con questa espressione i modi in cui gli uomini,
nelle diverse società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del
loro corpo» (op. cit., p. 385).
6 «L'intelligenza interpersonale è la capacità di comprendere gli altri, le loro motivazioni e il loro modo di
lavorare, scoprendo nel contempo in che modo sia possibile interagire con essi
in maniera cooperativa. [...].
L'intelligenza intrapersonale è una capacità correlativa rivolta verso l'interno: è l'abilità di formarsi un modello
accurato e veritiero di se stessi e di usarlo per operare efficacemente nella
vita» (H. Gardner, p. 9).
7 Seguiamo la definizione di G. Liotti per il quale gli schemi interpersonali, come gli schemi cognitivi, sono
«strutture mentali (mnemoniche) astratte, costruite per generalizzazione e sintesi di precedenti esperienze.
Essi regolano, momento per momento, la concreta rappresentazione ( nei processi di pensiero connessi ad
aspettative, valutazioni, attribuzioni di significato, etc.) di sé e dell'altro con nui si è impegnati in una relazione.
Le operazioni di valutazione degli atti e delle esperienze emotive che punteggiano una relazione sono dunque
funzione degli schemi interpersonali preformati - schemi sulla base dei quali ognuno "costruisce", momento
per momento, il significato del proprio agire e della propria identità, e quello dell'agire e dell'identità dell'altro»
("L'anoressia mentale e la dimensione cognitivo-interpersonale dei disturbi psicogeni dell'alimentazione",
Psicobiettivo, VIII, 2, 1988, pp. 25-36).
8 Comunicazione è infatti intesa non tanto come trasmissione di informazioni, di messaggi o di saperi in
generale, quanto un "mettere-in-comune". In questo il lavoro teatrale diventa un darsi all'interno di una
comunità e un formare comunità (cfr. Pedace P., "La comunità della scrittura" in Teoria e pratica della scittura
creativa, (a cura di) T. De Mauro, P. Pedace, A. G. Stasi, Controluce, Roma,
1996).
9 Turner (1982) così definisce tutte quelle situazioni di passaggio; è uno spazio intermedio situato tra
situazioni assegnate o definite dalla legge, dal costume e dalle convenzioni, in cui trovano espressione una
ricca varietà di simboli. Questa zona che non è contrassegnata da alcuna forma determinante di potere
permette l'espressione delle forze della mutazione e del cambiamento.
10 «L'esercizio ci deve aiutare ad eliminare le abitudini personali e rendere le nostre azioni chiare e
"semplici", non a diventare schiavi di una tecnica» (Oida, 42).
11 Vedi R. Assagioli, Principi e metodi della
Psicosintesi Terapeutica, Astrolabio, Roma, 1973, "esercizio di
disidentificazione" pp. 108 ss..