La Tragedia della Grecia classica
e il "piacere tragico" dell’uomo moderno


Di Letizia Ferrara


Nella Poetica troviamo teorizzato essere la tragedia attica del quinto secolo l’espressione più alta di tutta la poesia greca, l’interesse di Aristotele si concentra infatti sulla tragedia. L’inizio del capitolo sei della Poetica ci offre la sua definizione: "Tragedia è dunque imitazione di un azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, distintamente per ciascun elemento delle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (katharsis) di siffatte emozioni" (1449 b,24-28).

La tragedia, afferma Aristotele, più che un’imitazione della natura come l’arte o la poesia, è rappresentazione e ricostruzione delle vicende umane non come effettivamente si sono svolte, poiché questo è compito della storia, ma secondo criteri di verosimiglianza e necessità.

La materia delle tragedia non è dunque il "vero storico", quanto la realtà umana nella sua forma razionale: la vita come dovrebbe o potrebbe essere e non come appare. Perciò l’arte non si limita a produrre negli spettatori un puro e semplice piacere di intrattenimento, non costituisce solo un’occasione per dare libero sfogo alle passioni o scaricare la tensione emotiva tramite l’immedesimazione con personaggi e situazioni, ma è in grado di stimolare un vera e propria catarsi.

Il significato di catarsi non è facilmente interpretabile e del tutto chiarito dagli scritti di cui disponiamo. Dal contesto degli scritti dei Sofisti si deduce che la catarsi ha un valore di chiarificazione, di illuminazione, di comprensione delle passioni. A oggi le interpretazioni più argomentate risultano essere ancora due:

a) partecipando all’azione tragica l’uomo si libera dalle passioni, le proietta o esteriorizza sulla scena e recupera così l’equilibrio psichico necessario per riprendere il pieno dominio delle proprie funzioni razionali, senza il quale, qualsiasi intervento di trasformazione delle realtà sarebbe velleitario; la ragione si svincola così dai condizionamenti di una psicologia del profondo che rende l’individuo inconsapevole e passivo di fronte all’apparente casualità degli eventi.

b) La catarsi è purificazione delle passioni nel senso che queste assumono gradualmente una forma razionale, ossia esse non vengono eliminate ma subiscono una "trasformazione", vengono cioè capite.

Il processo di liberazione emotiva indotto dalla tragedia sarebbe stato delineato da Aristotele sulla falsariga della terapeutica ippocratica: la suggestione di noti testi medici fu indubbiamente forte su Aristotele.

Appare ben chiaro il doppio movimento implicito nella tragedia: un moto di eccitazione psichica dello spettatore (pietà e paura) cui subentra un rasserenamento liberatorio, un ritorno all’equilibrio. Fin qui la teoria, ossia la descrizione che Aristotele dà dell’effetto della tragedia, cioè della forma più potente di imitazione poetica.

La bibliografia riguardante la katharsis è vastissima poiché nella spiegazione del termine si è vista troppo spesso la soluzione dell’enigma di tutta la Poetica. La katharsis non può non apparire un forte segno di rigenerazione spirituale che il filosofo assegna alla poesia, di distacco dalla materialità delle cose. Tale nella sostanza, la suggestione resta fino a noi: basti pensare al valore acquistato dal moderno catarsi.

Nel saggio The Essence of Tragedy (1939) di Maxwell Anderson (1888-1959), non si parla della problematica della tragedia, né della necessità, per la tragedia moderna, di rinnovare i propri argomenti. Anderson sostiene che la coscienza umana non è molto cambiata dai tempi dei greci, e che le basi della commedia e della tragedia sono rimaste sostanzialmente le stesse per tutto il corso della storia: il teorico ha solo bisogno di cercare ciò che tutte le grandi opere riconosciute hanno in comune, sia nella struttura che nella funzione. Per la struttura, Anderson guarda ad Aristotele, attraverso il filtro dei critici formalisti del tardo Ottocento, come Archer:"Un dramma dovrebbe avvicinarci e allontanarci rispetto ad una crisi centrale, e questa crisi dovrebbe consistere in una scoperta, ad opera del protagonista, che abbia un effetto indelebile sui suoi pensieri e le sue emozioni, e tale da mutare completamente il corso delle sue azioni. Questa crisi dev’ essere posta, di norma, vicino alla conclusione dell’ atto centrale del dramma. Il protagonista deve rimanere colpito, così che dopo la crisi, possa cambiare in meglio.

In tal modo, il personaggio contribuisce al progresso morale della specie, adempiendo alla funzione della tragedia: affermazione religiosa, antico rito che riconferma e consolida la fede dell’ uomo nel suo stesso destino e in un’ estrema speranza.

Anche Sastre riteneva che non si dovesse abbandonare Aristotele, ma, come dichiarò per la prima volta in Tragedia (1953), solo aggiornarlo. L’ intreccio della tragedia deve comprendere "eventi dolorosi che fanno sorgere in colui che li sopporta, o almeno nello spettatore, domande fondamentali sul significato di quegli eventi" e sulla "possibilità di ridurre, con lo sforzo umano, i loro effetti". In tal modo, la pietà e il terrore stimolano lo spettatore "a prendere decisioni sociali significative, che vanno dalla solidarietà individuale alla rivoluzione". La catarsi risulta composta da due fasi: "la purificazione immediata o personale e la purificazione sociale" .

"Il piacere tragico, l’ attrazione per la tragedia", afferma F.L. Lucas (1894-1967), "nasce dalla curiosità, dalla fascinazione per la vita stessa e dal piacere dell’ esperienza emotiva. Andiamo alle tragedie non per liberarci dalle emozioni, ma per averne di più; per banchettare con esse, non per purificarci: la catarsi esprime qualcosa di molto più grande che non l’ equilibrio delle passioni".

Per Eugene O’Neill, la tragedia è la naturale conseguenza della condizione umana: l’esistenza in sé è tragica, l’angoscia è la punizione dell’uomo per la sua consapevolezza. Una simile visione della tragedia, acquistò rilievo nelle teorie di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche:"L’uomo, per il solo essere uomo, per avere la coscienza, è un animale malato".

"Teorie ingegnose, pessimistiche, ma sbagliate", afferma in Tragedy (1924), W.M.Dixon (1866-1946) dove, assumendo una visione democratica del genere drammatico, ritiene che lo scopo della tragedia non sia di documentare l’impotenza della condizione umana, ma di mostrare come sia "grande e straordinario" il mondo di cui l’uomo fa parte. La tragedia ci esorta ad estendere la nostra immaginazione verso l’infinito, verso intelligenze più grandi e verso obiettivi più ampi dei nostri. Questa visione, rafforzata dall’ "ordine e dalla bellezza" dell’espressione poetica, rende, in definitiva, gioiosa l’esperienza della tragedia. Il dramma moderno rischia di perdere questa gioia "per la sua secolarizzazione, per i limiti che si è imposto", spostandosi da interessi cosmici a questioni sociali e psicologiche.

L’effetto della tragedia viene preso in esame anche da I.A.Richards (1893-1979), nel suo importante libro Principles of Literary Criticism (1924), ma con un approccio di tipo nettamente più scientifico. L’interesse di Richards era di applicare all’esperienza artistica le nuove intuizioni offerte dalla psicologia. In termini che ricordano Coleridge, Richards è incline a ritenere che, concretamente, l’opera d’arte organizzi ed equilibri reazioni emotive, e che l’arte più efficace abbia il compito appunto di bilanciare emozioni opposte. La catarsi tragica, secondo lui, nasce da una simile opposizione, la Pietà, cioè l’impulso a partecipare, e il Terrore, ovvero l’impulso ad allontanarsi, trovano nella tragedia una conciliazione che non è loro altrimenti consentita.

Le tragedie migliori (numericamente poche, secondo Richards) sono tra le più alte esperienze che l’uomo abbia mai fatto. Nella tragedia vengono gettate da parte tutte le repressioni e le sublimazioni psicologiche mettendo a confronto impulsi che altrimenti sarebbero evitati; essa crea, sulla loro base, armonia e gioia. La tragedia non insegna che "tutto al mondo va bene, o che in qualche modo o da qualche parte, la giustizia è destinata a trionfare" , ma piuttosto che "tutto va bene, qui e ora, nel nostro sistema nervoso".

Agli studiosi di teoria drammatica, Sigmund Freud è noto soprattutto per essersi servito di personaggi drammatici (in particolare Edipo), al fine di illustrare determinate condizioni psiconeurotiche, oltre che per il suo studio dei motti di spirito (che si riferisce indirettamente della commedia), e in misura minore, per la sua analisi psicologica di determinate scene e personaggi.

Meno noto è l’unico saggio nel quale Freud si occupa esplicitamente di teoria del dramma, Psychopatische Personen auf der Bubne (Personaggi psicopatici sulla scena), scritto probabilmente nel 1905.

Basandosi sulle osservazioni di Aristotele circa la purgazione (katharsis), Freud ipotizza che il dramma procuri un sicuro strumento per "far scaturire fonti di piacere o di godimento dalla nostra vita affettiva", analogo alla liberazione raggiunta dai bambini attraverso il gioco. C’è un godimento diretto, scevro da qualsiasi interesse, politico, sociale o sessuale, derivante da un' identificazione con l’eroe; ma c’è anche una masochistica soddisfazione indiretta, senza dolore o rischio personale, per la sua sconfitta.

"Tema del dramma è dunque ogni genere di sofferenza", purchè il pubblico venga compensato della propria partecipazione emotiva dalle soddisfazioni psicologiche dello stimolo psichico. La sofferenza dev’essere mentale, non fisica, poiché quest’ultima scoraggia sia il godimento che l’attività psichica. Deve nascere da "una situazione di conflitto, che richiede uno sforzo della volontà e una resistenza".

 

Lo Psicodramma

Per un cambiamento dell’assetto teorico della psicoanalisi, che si è andato sfrondando degli aspetti più dogmatici, la psicoterapia moderna, pur mantenendo il fondo analitico, si è trasformata, orientandosi verso diverse tecniche, tutte volte, con mezzi vari, ad un’opera di rieducazione della personalità, sul piano individuale e sociale. In altre parole, essa tende a rafforzare l’Io piuttosto che analizzare l’inconscio. Questi indirizzi sono seguiti anche da altre metodiche, come la Logoterapia di Frankl, lo Psicodramma di Moreno e la Psicoterapia di gruppo.

Un giovane medico rumeno, interpellato dal grande Freud, gli dichiara apertamente: "Sto partendo da dove voi vi siete fermato. Voi incontrate la gente nell’ambiente artificiale del vostro studio. Io la vado a cercare per la strada o in casa, nel suo ambiente naturale. Voi analizzate i loro sogni, io cerco di dar loro il coraggio di sognare ancora. Insegno alla gente come impersonare Dio". Freud naturalmente, sia pur sorridendo, lo guardò sbalordito, non rispose verbo, comprensibilmente, e riprese il suo cammino. E in verità, un po’ di sbalordimento sussiste tuttora in chi si avvicina per la prima volta all’opera di Jacob Levy Moreno.

Nato il 20 Maggio 1892 a Bucarest, di umile famiglia ebraica, qualche anno prima dello scoppio del grande conflitto si stabilisce nella Vienna di Cecco Beppe, prima, studiando teologia e filosofia, poi lascia e si laurea in medicina nel 1917, partecipando alla vita culturale assai viva in quegli anni nella capitale mitteleuropea. Inizia un tirocinio psichiatrico presso i manicomi di Veslau e Vienna ma rifugge comunque dalle sedi tipiche e dall’iter tradizionale dei medici in erba così come si allontana presto insoddisfatto dai teatri tradizionali.

Preferisce, anziché sedere da spettatore, agire come attore estemporaneo, raccontando favole ai bambini e mimandole con loro, sotto gli alberi secolari nei giardini del Ring: ecco i primi esperimenti di psicodramma. E invece che ai pazienti mentali istituzionalizzati, rivolge la sua attenzione alle prostitute del quartiere Am Spittelberg di Vienna, dove, insieme al medico W. Green e al giornalista Colbert, affronta così le prime vere e proprie esperienze di psicoterapia di gruppo.

Con questa categoria di "escluse" parla, discute, drammatizza, soprattutto perché, essendo messe al bando dalla società, sono ricche di quella partecipazione singolare al gran teatro del mondo, di quella peculiare percezione della vita. Bambini e prostitute costituiscono per Moreno dei filoni drammatici allo stato puro; e anche autenticità, storie, conflitti sofferti in prima persona; "fonte inesauribile di Stegreif ", cioè di improvvisazione e di spontaneità espressiva.

Nel 1918 pubblica Daimon, rivista mensile di filosofia e letteratura; dal ’21 al ’25 fonda Das Stegreiftheater (Il Teatro della Spontaneità) che vede la luce a Berlino nel 1923, e nel 1947 l’autore traduce e cura l’edizione americana.

Terminato il "periodo europeo", nel 1927 si trasferisce negli Stati Uniti dove esercita la professione di medico. L’anno seguente dà luogo ad attività psicodrammatiche con i bambini dell’Istituto Plymouth di Brooklyn e introduce un test di spontaneità nella clinica di igiene mentale dell’Ospedale del Monte Sinai di New York. Dal 1931 al 1932 conduce studi sociometrici nella prigione di Sing Sing. Il "periodo americano" dura fino al 1951 ed è pieno di iniziative, tra le quali, la fondazione del "Teatro terapeutico" e della rivista Sociometry che raccoglie e forma un’intera generazione di specialisti.Nel 1940,oltre ad un’attività editoriale considerevole,fonda l’Istituto psicodrammatico (Beacon House, New York) e dal 1945 è presidente dell’Associazione americana di sociometria.Nel 1964 ha avuto luogo a Parigi il primo Congresso internazionale di psicodramma.

I concetti di spontaneità e creatività hanno assunto una posizione di primaria importanza a partire dalla fine della seconda guerra mondiale: in campo educativo iniziano ad essere utilizzate le ricerche e i test sulla creatività e sulla spontaneità e i tentativi di una loro applicazione pratica; e anche nelle arti ( musica, ballo, pittura, poesia, dramma e psicodramma) la creatività e la spontaneità sono elementi basilari.

I principali precursori di questa tendenza sono essenzialmente i due filosofi Henri Bergson e Charles S. Pierce: a loro il merito di avere introdotto nella filosofia il concetto di spontaneità, che fino a quel momento era considerato dagli scienziati estraneo ad ogni ricerca scientifica oggettiva. Per quanto concerne la creatività, la si può definire come una forza che pervade tutto l’universo, cosicchè il mondo risulta essere creativo. La condizione opposta sarebbe allora quella di una creatività di grado zero, per la quale il mondo risulterebbe assolutamente non creativo, automatico, senza passato né futuro, privo di un’evoluzione e di un fine, immutevole e vuoto di significato.

Questo concetto di un Io spontaneo e creativo, così fondamentale nella teoria Moreniana, era però profondamente screditato nel 1910, poiché nella Vienna di quel tempo, imperavano le tre più conosciute forme di materialismo contemporaneo: il materialismo economico di Marx, il materialismo psicologico di Freud e il materialismo tecnologico della bomba atomica. Tornando al concetto di creatività Moreniana, si può dire che essa abbia due connessioni: una con l’atto creativo e il creatore, l’altra con la spontaneità, intesa come matrice della crescita creativa, come principale catalizzatore della creatività. L’addestramento alla spontaneità è una forma di psicodramma evocativo. L’obiettivo di tale addestramento è un giusto grado di partecipazione ai ruoli impersonati e la maturazione del comportamento, perché è un adattamento alla realtà esterna quotidiana, in cui il soggetto misura le proprie capacità.

Fin dai suoi primi scritti, Moreno si è occupato della spontaneità e del suo rapporto con la creatività; il concetto di spontaneità è fondamentale in ambito clinico, e il grado di spontaneità di un paziente nel rapporto con gli altri è uno degli indici più significativi della sua salute mentale. La mancanza di spontaneità è segnalata dall’ansia e/o da un comportamento rigido e stereotipato. Apprendere la spontaneità nei rapporti interpersonali significa apprendere a rispondere in modo equilibrato alle esigenze dell’ambiente e alle proprie esigenze interne (facendo emergere i veri bisogni e le autentiche emozioni).Comunque, il concetto di spontaneità non è stato utilizzato da Moreno solo in riferimento ai fenomeni psicopatologici. Anzi, l’interesse per la spontaneità è stato suscitato dall’osservazione dell’attore sulla scena ed è stato ulteriormente elaborato in molteplici situazioni che miravano ad "addestrare" l’attore, in particolare, ha un ruolo centrale l’azione, l’interpretazione scenica improvvisata.

Essendo lo psicodramma un metodo di educazione all’autocontrollo quanto un metodo di espressione libera, la dinamica spontaneità/controllo fa necessariamente parte del lavoro psicodrammatico. Moreno individua il fattore S-C (spontaneità-creatività) come elemento chiave nell’espansione dell’individuo e della relazione con l’altro. L’interesse per la spontaneità è strumentale rispetto al tema dello sviluppo della creatività, dell’atto creativo. Sia in formazione che in terapia, uno degli obiettivi principali non è lo sviluppo della spontaneità, quanto la capacità di realizzare atti creativi, di assumere ruoli nuovi creativamente e di superare/trasformare in modo creativo i ruoli personali, sociali e lavorativi inadeguati o stereotipati.

 

Sarebbe difficile contestualizzare la drammaterapia prescindendo dall’opera pioneristica di Moreno. Lontano dal ridurre il dramma all’ovvio e all’esplicito, Moreno vide chiaramente e in maniera più profonda la natura socio-psicologica e simbolica dell’esperienza drammatica. La sua carriera fu, a dir poco, straordinaria: non solo sviluppò una prima concezione di dramma improvvisato, che chiamò "teatro terapeutico", ma anche la prima formulazione di terapia di gruppo. Forse, la sua innovazione più significativa fu l’applicazione della "recitazione di un ruolo" nella pratica psicoterapeutica.

Con Moreno, quindi, la psicoterapia divenne una tecnica drammatica; il paziente veniva chiamato "protagonista" e il terapeuta "regista" e il dramma era l’elemento centrale più che marginale della terapia. Moreno si concentrava sul presente, sul momento della spontaneità, non negò il concetto di inconscio e l’importanza dell’esperienza evolutiva infantile, ma questi non furono centrali nella sua teoria. Molto di più dei suoi colleghi viennesi e americani, Moreno si preoccupò della sfera sociale, sviluppando i campi del "sociodramma" e della "sociometria". Non intendeva fare altro che trasformare la società in un mondo più umano e meno represso, attraverso le sue tecniche sociodrammatiche.

La tecnica dello psicodramma, si presenta come una serie di situazioni recitative basate sull’interazione di quattro elementi: un "regista", impersonato dal terapeuta, un "protagonista", impersonato dal paziente, alcuni "Io ausiliari", interpretati da persone importanti nella vita del paziente, e i "doppi", ossia, le voci interne del protagonista. Attraverso l’interazione di questi attori, il protagonista esplora un problema della sua vita all’interno di un setting di gruppo. Vi è un quinto importante elemento dello psicodramma: colui, tra i membri del gruppo o del pubblico, che partecipa allo psicodramma attraverso una identificazione con il problema del protagonista e una condivisione delle sue esperienze di vita.

La tecnica sociodrammatica prevede la stessa struttura ma invece di un ruolo personale il protagonista interpreta un ruolo collettivo.

Secondo Moreno, lo psicodramma è un ponte che collega la psicoanalisi al comportamentismo e il suo scopo era quello di rendere il comportamento visibile e misurabile per poi integrarlo con la psiche del protagonista.

Nel corso della sua storia, lo psicodramma è stato usato con vari tipi di pazienti: bambini, anziani, psicotici, nevrotici, ritardati mentali, disabili, ma anche con persone sane. Molto del lavoro psicodrammatico è di natura verbale ma comprende anche attività espressive non verbali quali il movimento, l’arte e la musica.

Nella sua qualità di terapia catartica e tendenzialmente imprevedibile, questa tecnica richiede individui capaci di tollerare l’espressione di forti emozioni. Sebbene si basi spesso sulla fantasia, lo psicodramma è stato utilizzato con individui schizofrenici al fine di indurli ad azioni basate sulla realtà. Risultati positivi si sono ottenuti anche con altri tipi di pazienti come gli alcolisti e i detenuti.

Con quelle prime vere e proprie esperienze di psicoterapia di gruppo (i giardini del Ring e il quartiere Am Spittelberg di Vienna) Moreno, in sostanza, iniziava a sperimentare il VALORE DEL GRUPPO e all’interno di esso il processo formativo o terapeutico di AUTONOMIA DEL SINGOLO, percorso che non può dirsi compiuto se non è avvenuta quella particolare presa di coscienza delle proprie risorse e delle possibilità di cambiamento dell’individuo.

"Nel gruppo c’è tendenza verso l’anonimato dei partecipanti, i confini tra i vari Io diventano più tenui, è il gruppo stesso che, nella sua globalità, diventa il più importante. L’intervento non è finalizzato solo a produrre un benessere psichico nelle singole persone, ma intende produrre nelle persone un apprendimento a relazionarsi in modo più adeguato con gli altri. Questo apprendimento non può avvenire che in un ambito di gruppo, nel quale si attenua l’Io e si evidenzia l’importanza della relazione, delle identificazioni e dell’incontro con l’altro".

Al cuore dello psicodramma c’è la convinzione che la recitazione della vita di tutti i giorni si pone parallelamente alla recitazione teatrale.

Si può dire che molto prima dell’analisi sociologica di Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Moreno, applicò la metafora drammatica ad una profonda analisi dell’esistenza umana e sviluppò una strategia di trattamento diretta alla pratica teatrale.

Lo scopo dell’attore, secondo Moreno (1946), è "aggiungere novità, vivacità e qualità drammatica alla fedele interpretazione del copione".

Come abbiamo già detto, nello psicodramma, questo scopo può essere raggiunto attraverso l’acquisizione della spontaneità, una proprietà essenziale per il processo creativo e la recitazione. Il comportamento spontaneo ha una qualità esistenziale ed una qualità creativa, in quanto trasforma l’usuale in qualcosa di unico. Inoltre, il comportamento spontaneo è un comportamento giocoso, poiché non è calcolato, né diretto ad uno scopo ed è basato su funzioni immaginative ed intuitive.

 

Un concetto centrale della teoria di Moreno, di grande rilevanza per la drammaterapia, è il concetto di ruolo. Per Moreno, il ruolo è l’essenziale "unità culturale". Il ruolo precede il sé: ciò sta a significare che il sé non è un artefatto genetico ed innato. Si sviluppa socialmente ed emerge dal ruolo che assume. Moreno identifica quattro tipi di ruoli:

  1. i ruoli psicosomatici o fisiologici del bambino in relazione alla madre, che comprendono i ruoli di colui che mangia, dorme, evacua e si muove;
  2. ruoli di fantasia o psicodrammatici dell’individuo che, si sviluppano in relazione a personaggi magici o religiosi, inclusi ruoli di dèi, diavoli e animali;
  3. ruoli sociali basati su reali relazioni con gli altri, inclusi i ruoli lavorativi e familiari; e
  4. ruoli determinati dalle richieste di un particolare ambiente: ruoli familiari, di genere e professionali.

Per Moreno, la funzione del ruolo è di "entrare, dal mondo sociale, nell’inconscio apportando ad esso forma ed ordine". Nella sua teoria Moreno non enfatizza l’inconscio: fattori sociali e comportamentali hanno per lui maggiore rilevanza; poneva una considerevole attenzione sui processi intuitivi e non direttamente osservabili. Uno di questi, tele, rappresentava la relazione tra cliente e terapeuta e più generalmente, tra tutte le persone in un gruppo; tele implica un modello di comunicazione efficace, è un vocabolo greco e significa: lontano, a distanza. Il concetto di tele si riferisce al flusso a due sensi di emozioni tra il terapeuta e il paziente, a tutte le attrazioni e repulsioni fra le persone nei rapporti interpersonali, e alla somma degli aspetti emotivi di un rapporto. Non va confuso con i concetti di empatia e di transfert, in quanto questi implicano un sentimento a senso unico.

L’INVERSIONE DI RUOLO è la tecnica principale dello psicodramma, quella che esprime con maggiore evidenza sia l’importanza dell’incontro autentico con l’altro, che l’autoconsapevolezza che deriva dalla possibilità di un decentramento percettivo. Questo concetto è ben espresso in una frase tratta dal diario di bordo di uno dei primi astronauti che misero piede sulla Luna: "Ora capisco perché sono qui: non per vedere la Luna da vicino ma per voltarmi indietro e guardare la Terra da lontano".

L’inversione di ruolo consente questo duplice processo: entrare nei panni dell’altro per conoscere meglio ciò che egli prova, e al tempo stesso cercare di vedere se stessi con gli occhi dell’altro, attuando un percorso contestuale di auto ed eteropercezione.

La tecnica dell’inversione di ruolo viene utilizzata spesso nel corso della scena psicodrammatica: il protagonista viene invitato, ad esempio, a prendere il posto degli altri, significativi del suo mondo relazionale e a continuare la scena dal loro punto di vista. L’inversione di ruolo può essere una tecnica utile , ad esempio, per elaborare situazioni di coppia problematiche.

Il ROLE PLAYING è forse la tecnica di derivazione Moreniana più utilizzata in ambito formativo, pedagogico e clinico. Esso è innanzitutto una fase normale di apprendimento dei ruoli nella vita reale: esso assume pertanto una funzione nell’apprendimento.

Può riuscire utile distinguere: l’assunzione del ruolo (ROLE TAKING), vale a dire il fatto di accettare un ruolo definito, completamente strutturato, che non consenta al soggetto di prendersi la minima libertà nei confronti del testo; il gioco del ruolo (ROLE PLAYING), che ammette un certo grado di libertà; e la creazione del ruolo (ROLE CREATING), che lascia ampio margine all’iniziativa del soggetto, come si verifica nel caso dell’attore spontaneo.

Moreno, rivendica la paternità del role playing, in quanto tecnica formativa, sottolineando la derivazione dal linguaggio del teatro.

Giocare un ruolo può essere considerato un metodo per imparare a sostenere dei ruoli con maggiore adeguatezza. Il gioco di ruolo si connota pertanto come uno spazio di apprendimento, dove il ruolo giocato si contrappone al RUOLO CRISTALLIZZATO: in tal senso, il role playing è il campo dello sviluppo della spontaneità.

Si è creata spesso confusione fra i termini di role playing e psicodramma, perché entrambe queste esperienze sono accomunate dalla presenza di una certa rappresentazione o azione scenica. La differenza principale, riguarda il livello di implicazione profonda dei partecipanti. La catarsi, il vissuto affettivo intenso, appartengono alla psicoterapia e non alla formazione e all’educazione. D’altro lato succede che il gioco di ruolo produca risonanze affettive anche profonde. Per questo, si raccomanda una formazione personale clinica oltre che tecnica per i formatori.

Nel gioco di ruolo sono proposte delle situazioni sociali e professionali tipiche, con un fine di formazione o di presa di coscienza dei problemi, mentre nello psicodramma il soggetto mette in scena delle situazioni reali, storiche o traumatiche della sua vita. Nello psicodramma, vi è un protagonista che mette in scena il proprio mondo interiore, con l’aiuto degli IO AUSILIARI.

Gli Io ausiliari vengono scelti dal protagonista; essi possono avere vantaggi terapeutici secondari nell’agire il ruolo di Io ausiliari, ma non scelgono loro il tipo di ruolo da agire. Nel role playing, invece non vi è il protagonista, ma solo un’occasione di "messa in azione", un tema iniziale che dovrà tradursi in azione scenica. Vi può eventualmente essere una focalizzazione su uno o più ruoli, sui quali verte l’attenzione (es. ruolo di insegnante o di genitore); tutti i ruoli in gioco, comunque, vengono presi in considerazione. Nel gioco di ruolo, i membri del gruppo hanno la possibilità di scegliere il ruolo che desiderano agire.

Da questo punto di vista, nel role playing vi sono molti protagonisti che, impersonando un certo ruolo, interpretano una parte di sé stessi (desiderata o temuta), oppure una parte dell’altro (conosciuta o sconosciuta)y

Il termine "gioco psicologico" è ampiamente diffuso in ambito formativo ed educativo. All’interno della metodologia psicodrammatica, la dimensione del gioco è spesso presente, ma non si configura necessariamente come attività specifica o "gioco psicologico".

La valorizzazione della dimensione ludica nei percorsi formativi o terapeutici psicodrammatici, passa attraverso la modalità di conduzione, si evidenzia nell’uso dell’azione, si concretizza nel ricorso al simbolico e al fantastico, accompagna lo sviluppo delle sessioni, anche se specificamente non viene proposto un gioco. Per questo motivo è preferibile parlare di attività di gruppo, anziché di gioco psicologico nella terapia e nella formazione con modalità psicodrammatiche.

Ricordiamo inoltre che il teatro, secondo Moreno, è il "posto dove, giocando, si esamina la vita nella sua forza e nella sua debolezza. E’ il posto della verità senza potere e dove ciascuno ha tutto il potere che riesce a manifestare. Giocare guarisce: occorre solo essere capaci di giocare, imparare di nuovo a giocare come giocano i bambini e realizzare così sé stessi in un gioco che non faccia differenze tra il reale, l’immaginario e il presunto; anche questa concezione è alla base dello psicodramma".

I cosiddetti METODI D’AZIONE, oltre ad essere centrali nello psicodramma terapeutico, sono un ausilio importante per favorire la crescita personale, ampliando la conoscenza di sé e della propria storia. Essi promuovono la consapevolezza relazionale e gruppale, e facilitano lo sviluppo della capacità comunicativa, attraverso un riaddestramento emotivo, e l’uso del corpo nella sua globalità. La metodologia psicodrammatica è uno strumento fondamentale anche per la crescita professionale e, si può affermare che, sviluppa una maggiore consapevolezza dei confini e delle connessioni tra ruoli personali e ruoli professionali.

 

Dallo Psicodramma alla Drammaterapia

Lo psicodramma, la più teatrale delle terapie, costituisce una risorsa teorica per la drammaterapia e fornisce una serie di tecniche ampiamente usate dai drammaterapeuti. Sono abbastanza simili nell’uso del gioco di ruoli, della spontaneità, della fantasia e dell’esperienza recitativa.

Ad ogni modo, la drammaterapia comprende altri mediatori drammatici e teatrali, come le marionette, le maschere, le performance teatrali, la narrazione e la drammatizzazione di storie.

Ai drammaterapeuti, a differenza degli psicodrammisti, è richiesto di istruirsi nell’improvvisazione drammatica e nelle arti teatrali, poiché, costituiscono la base del loro lavoro.

Lo psicodramma, dopo sessant’anni di diffusione negli Stati Uniti e altrove, non è andato molto oltre il lavoro di Moreno, il quale, spesso si proponeva sia come un profeta religioso, sia come il padre fondatore di una disciplina. Lo psicodramma, ha avuto una lunga storia e ha influenzato non solo la drammaterapia ma anche la psicologia, il teatro, la sociologia e il campo dell’educazione. Sebbene la drammaterapia e lo psicodramma, differiscano nella formazione dei terapeuti e nell’applicazione di processi e tecniche, sono entrambe usate sull’esperienza dell’azione drammatica e dell’interpretazione di un ruolo.

Il campo della drammaterapia è un campo in espansione, maturato contemporaneamente in molti paesi, in particolare in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Olanda. Esso si identifica con il lavoro di un gran numero di terapeuti e teorici, che continuano a ridefinire il campo e a formare nuove generazioni.

Due sono gli elementi essenziali nel processo della drammaterapia: ruolo e storia. Essi sono gli strumenti indispensabili per la trasmissione dei messaggi tra il cliente e il terapeuta. Tutte le comunicazioni che si attivano in drammaterapia, procedono attraverso questi media. Essi possono essere chiamati media primari, giacchè molti degli specifici mediatori espressivi, come burattini e maschere, video e improvvisazione, prendono vita dalle fonti di ruolo e storia. I mediatori specifici diventano quindi media secondari, che incarnano le proiezioni del cliente mentre gioca un ruolo o racconta una storia.

I media drammatici, sono delle interfaccia tra due livelli di realtà: quello della vita quotidiana e quello dell’immaginazione. Giocando un ruolo o raccontando una storia, il cliente in terapia drammatica, entra nella realtà immaginativa (narrativa), allo scopo di commentare la realtà quotidiana o di riflettere su di essa. I media secondari sono gli strumenti pratici del trattamento, nel senso che essi possono illuminare la natura di ruoli e storie dei clienti. E’ il compito del drammaterapeuta aiutare il cliente a trovare i ruoli da giocare e le storie da raccontare, che possano fornire uno specchio che riflette la sua vita.

Un terzo importante elemento è l’atto creativo, la fonte da cui i media primari prendono vita. L’atto creativo è l’illud tempus, il tempo delle origini, il momento dell’azione spontanea: verbale, tonale o gestuale. Al cliente in terapia drammatica è proposta una sorta di nascita, un chiamare all’esistenza parti di sé e del mondo, organizzando la propria creazione.

Robert J. Landy, considera il concetto di ruolo, derivato dal teatro, più adeguato a rispondere alle domande sull’identità piuttosto che il concetto del Sé, derivato da fonti psicologiche e filosofiche: è giunto il momento di spostarsi dal mito del sé al mito del ruolo, per dare un senso alla storia personale di ciascuno.

Ovviamente, esiste un certo numero di ruoli, un "repertorio" per ciascun individuo: più ruoli uno è capace di giocare, meglio sarà in grado di rapportarsi con una varietà di circostanze sociali. Questa nozione è simile a quello che molti drammaterapeuti vedono come uno dei loro obiettivi primari: l’espansione del repertorio dei ruoli.

Landy, definisce anche il grado di intensità o di distanza nel giocare un ruolo. Il concetto di distanza in drammaterapia, indica la misura del coinvolgimento affettivo/cognitivo del cliente nel lavoro drammatico. Il punto ottimale di coinvolgimento è descritto come "distanza estetica", un equilibrio di affetto e cognizione. I punti di squilibrio sono identificati come iperdistanzazione, uno stato compulsivo, manifestato da un eccesso di pensiero, e ipodistanziazione, uno stato impulsivo, manifestato da un eccesso di emozione.

In drammaterapia il ruolo, che, come abbiamo detto, è uno dei due media primari, dev’essere preso, assunto. Senza l’assunzione di un ruolo, la drammaterapia non può esistere; e quando una persona assume un ruolo in drammaterapia, riduce la propria complessa umanità ad un tipo particolare, un unico status, un unico tempo e spazio, un unico simbolo o immagine. Il ruolo è il contenitore di questa unicità.