Apprendere la "felicità" per migliorare
la qualità della vita: una questione aperta


Gian Franco Goldwurrn (ASIPSE-Milano)

Dalla rivista "Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale", vol. 1, n. 3, 1995,UPSEL editore




Riassunto

La "Felicità" in quanto "Soddisfazione per la propria vita" rappresenta l'aspetto soggettivo più importante e significativo della Qualità della Vita. È caratterizzata da una dimensione emotiva e da una cognitiva ed è connessa ai fattori oggettivi della Qualità della Vita, fra i quali importante appare il livello di salute. Malgrado una relativa stabilità, la felicita' può essere modificata in particolari periodi della vita come nella fase dello sviluppo, in quella dell'invecchiamento e nel corso di malattie croniche e invalidanti. Poiché queste modificazioni possono migliorare o peggiorare la Qualità della Vita, è possibile chiedersi se, date come stabili le condizioni oggettive, noi possiamo aumentare lo stato di "Felicità", cioè di benessere soggettivo. Vengono riportati a questo proposito una serie di contributi ricavati dalla letteratura che tendono a dimostrare la possibilità di aumentare la "Felicità" mediante training basati sull'apprendimento di qualità psicologiche basali e di comportamenti specifici. I programmi presentano ora un approccio prevalentemente comportamentale ora prevalentemente cognitivo, quasi sempre misto in larga misura. Malgrado l'interesse di queste ricerche, il problema tuttavia rimane aperto e non poche critiche vengono mosse a questi tentativi.

Parole chiave: Felicità, Qualità della Vita, Benessere Soggettivo.

Summary

Happiness as Life Satisfaction is the most important subjective factor with respect to the Qualitv of Life. Jt is characterized by both an emotional and a cognitive state and it is connected with the objective factors of the QualiW of Life, among which an important role is played by Health. Albeit happiness may be a relatively stable psychological trait, it can be modified in certain periods of the life such as during the growth period, during aging and during chronic disabling illnesses. Since these alterations may improve or worsen the Qualirv of Life one can wonder if, given as stable the objective conditions, it is possible to enhance personal Happiness and subjective Wellbeing from a psychological point of view. We report many works that demostrate the possibility of improving Happiness with trainings based on learning of psychological skills and specific bahaviours. The approach is cognitive or behavioural, more frequently is mixed. In spite the interest of this line of research, the problem is open and some criticism is moved to these studies.

Keywords: Happiness, Quality of Life, Subjective Wellbeing.

La "Felicità" è un problema che l'Umanità si è posta da molto tempo e, come è noto, si trova presente in larga misura in quasi tutte le fomulazioni filosofiche (Donati, 1984). Più recentemente esso è diventato oggetto di studio della psicologia e sono stati fatti numerosissimi lavori in proposito. Ruut Veenhoven (1995) ha organizzato un World database of Happiness che registra una grande quantità di studi e di notizie relative a questo argomento. Dal nostro punto di vista di medici, psichiatri e psicologi il problema della Felicità, che nell'accezione comune ha una dimensione squisitamente personale e spirituale, può essere inglobato utilmente nel più ampio concetto di Qualità della Vita (QdV) e si può considerare che ne rappresenti l'essenza soggettiva. Precedentemente in altri lavori (Goldwurm, 1992,1994; Goldwurm & Pesenti, 1994), si è cercato di chiarire concetti e definizioni, ripercorrendo brevemente la storia del concetto di Qualità della Vita e il suo uso nell'ambito della medicina e della psicologia.

In sintesi si può affermare che la maggioranza degli Autori, pur con accenti diversi, accettano, contrapposto alla Quantità, il concetto di Qualità della Vita con una dimensione sociologica e una psicologica. Qualità determinata cioè da fattori oggettivi e da fattori soggettivi, però intrinsecamente interdipendenti o dialetticamente connessi. Questi fattori, inoltre, non hanno un valore assoluto, ma sono storicamente determinati nel tempo e nello spazio e pertanto, nel risultato finale, il confronto fra 'prima" e 'dopo", 'qua" e "là", è spesso determinante per un giudizio sulla QdV. Ripetiamo un sommario elenco di questi fattori per ricordare l'idea del fenomeno e per ripetere che non è possibile parlare esclusivamente degli uni senza tener conto degli altri. Fra i fattori oggettivi che contribuiscono alla Qualità della Vita si possono elencare quelli economici, abitativi e ambientali, il sistema educativo e sanitario di un Paese e quindi il livello di istruzione e la qualità della salute degli individui. Nella nostra società anche il modo di soddisfare il bisogno di tempo libero è un indice di qualità.

Una società che si preoccupa della QdV dei suoi cittadini è attenta pure a tutelare i soggetti più deboli ed emarginati, a rispettare le minoranze e a garantire un adeguato livello di libertà, giustizia e democrazia. Fra i fattori soggettivi, quello centrale e più generale può essere individuato nella soddisfazione per la propria vita in senso globale e nelle singole aree vitali (famiglia, lavoro, sport, amicizia, sessualità, pensionamento, salute, vita socio-culturale ecc.). È questa la percezione soggettiva individuale della propria esistenza, del proprio benessere soggettivo e del proprio funzionamento fisico e sociale. L'individuo prova soddisfazione o meno in relazione all'autovalutazione della propria realizzazione nel contesto del suo sistema di valori, in relazione al soddisfacimento delle proprie aspirazioni e in definitiva alla stima globale che ha di se stesso.

Secondo Sartorius (1993) tuttavia, non vi è sempre unanimità nel definire la QdV: alcuni pensano che essa sia un sinonimo della capacità di esercitare ruoli personali e sociali analoghi a quelli degli altri, qualcuno la valuta in base a indicatori oggettivi come la disponibilità di cibo, di casa, di lavoro o di diritti umani, per altri è solo la percezione del proprio benessere o, come egli sostiene, la percezione della propria posizione nella vita in relazione ai propri obiettivi e al proprio sistema di valori. Parole come "buona salute", "benessere", "soddisfazione" e "felicità", egli dice, suonano spesso come sinonimi di QdV. Anche Glatzer (1991) ritiene che in senso ampio la QdV sia una costellazione individuale di componenti oggettive e soggettive del benessere (Welfare), mentre in senso stretto si debba porre maggior enfasi sulla percezione e valutazione della vita e sul benessere soggettivo generale (Wellbeing). Nei numerosi studi che riguardano la QdV in soggetti normali e in soggetti patologici si nota che i fattori elencati (e altri ancora) sono focalizzati e sottolineati in modo diverso, specie nell'uso degli indicatori sia oggettivi che soggettivi, in relazione agli scopi di chi li usa. È più frequente, infatti, che dei fattori oggettivi socio-ambientali se ne occupino prevalentemente i sociologi, gli urbanisti e i politici, dei fattori biologici che influenzano la salute se ne occupino i bio-medici e gli igienisti, mentre dei fattori soggettivi se ne occupino gli educatori, gli psicologi e gli psichiatri, ed è soprattutto da quest'ultimo punto di vista che diventano centrali le formulazioni di Benessere soggettivo (WellBeing), di Soddisfazione della vita e di Felicità, cioè i sentimenti e i giudizi soggettivi dell'uomo nei riguardi della sua vita.

Cerchiamo di definire, quindi, ciò che in questo contesto chiamiamo "felicità". Come si è già accennato, recentemente si è avuto un enorme numero di lavori su questo argomento (si veda Veenhoven, 1995) e per forza di cose è necessario scegliere un punto di vista che forse risulterà parziale. Nel linguaggio comune, "sentirsi felice" vuol dire provare un sentimento di gioia e il desiderio di vivere che può assomigliare al "turgore vitale" dei vecchi Autori. Tuttavia oggigiorno si distingue fra sentimenti e umori positivi momentanei o a breve termine, e "felicità" come stato psichico a lungo termine, rappresentante il valore medio dei precedenti. Questo stato è più stabile delle variazioni dell'umore, è meno influenzato da fattori momentanei, e rappresenta una caratteristica attitudinale di base degli individui (Mikulincer & Peer-Goldin, 1991). Inoltre il concetto scientifico di "felicità" comprende due componenti, una emotiva o sentimento (feeling) e una cognitiva o giudizio di valore. Riproponiamo alcune definizioni che inquadrano il concetto di felicità nel più ampio quadro della QdV e lo assimilano ai concetti di soddisfazione della vita, benessere soggettivo, contentezza ecc.

Per Lewinsohn et al. (1991) la felicità è un sentimento, mentre la soddisfazione è un giudizio e si riferisce alla sfera cognitiva.

Secondo Heady e Wearing (1991) il benessere soggettivo ha tre dimensioni: la soddisfazione cognitiva della vita, uno stato affettivo positivo e uno stato affettivo negativo. Quest'ultimo può essere caratterizzato da ansia e depressione. Quindi viene messo in evidenza che fattori di natura psico-patologica possono incidere sullo stato di benessere. Possiamo notare però con Spaltro (1995) che oggi si può finalmente "vivere" una ricerca diretta sulla felicità e non solo le tradizionali ricerche sulla psicopatologia o sull'infelicità da evitare per poter essere felici. Come la salute non può essere definita solo dalla mancanza di malattia, così il benessere non può essere definito solo dalla mancanza di malessere. Il benessere poi appartiene alla sfera del cognitivo, è un modo di pensare e viene distinto dal benestare, che è un modo di agire e appartiene alla sfera dell'azione e del comportamento, anticipando con ciò i due approcci cognitivo e comportamentale nell'affrontare il problema della felicità.

Argvle e Martin (991) definiscono la felicità come uno stato di gioia e uno stato di soddisfazione. Il primo è un'emozione, il secondo una cognizione, risultato di riflessione e di giudizi di valore. Ambedue sono posti all'interno del concetto più globale di "Felicità".

Veenhoven (1991) infine usa il termine felicità nel senso di soddisfazione della vita, anch'egli unificando i due termini. La felicità-soddisfazione è concepita come "il grado in cui un'individuo giudica favorevolmente la qualità complessiva della sua vita come un tutto". Questa valutazione complessiva ha due aspetti, uno affettivo e uno cognitivo.Il primo, in sostanza, "come uno si sente (feel)",il secondo "in quale misura uno giudica di aver raggiunto ciò che desiderava raggiungere nella vita".

In definitiva, dunque, la "Felicità" o "soddisfazione della vita" o "benessere soggettivo", è uno stato psichico soggettivo emotivo e cognitivo ad un tempo, relativamente stabile e che caratterizza la QdV. Vari lavori (si veda Veenhoven 1991) hanno teso a definire le caratteristiche dell'uomo felice, ma difficilmente queste possono essere definite da elementi obiettivi, anche se questi concorrono a determinare lo stato di felicità. La felicità è uno stato soggettivo e può essere misurata solo con mezzi psicologici in grado di rilevare nel modo più accurato possibile questo stato. In un certo senso, questo è ancora il tallone d'Achille dei lavori scientifici sulla "Felicità". Secondo Fordyce(1977), ènecessario attaccare il cuore del problema, anche se a volte siamo costretti a girarvi attorno e ad affrontarlo in maniera indiretta.

Dobbiamo chiederci quindi cos'è la "Felicità", come si valuta e se è possibile modificare questo stato psichico (Veenboven 1991). Modificare sentimenti ed emozioni a breve termine sembra più facile. Sia stimoli esterni, sia anche l'uso di psicofarmaci possono modificare stati d'ansia, di depressione e tristezza, provocando gioia, allegria e voglia di vivere. Modificare invece il giudizio sulla propria vita o uno stile cognitivo che crei soddisfazione e sentimenti positivi di fondo permanenti, questo sembra più difficile. Seguendo il ragionamento di Veenhoven, tuttavia, sarebbe necessario porsi alcune domande preliminari. Cioè, non solo se sia possibile modificare l'attitudine alla felicità, ma anche se rendere una persona felice sia un giusto obiettivo. Vi sono su questi argomenti molti lavori e opinioni contraddittorie. In sintesi: obiezioni alla ricerca della felicità possono nascere da visioni religiose o filosofiche della vita, e su questo non mi soffermo. Più attuale può essere l'osservazione che l'infelicità e il malessere soggettivo sono motivazioni al cambiamento che spingono a raggiungere uno stato di felicità. Lo stato raggiunto può far cadere la motivazione e quindi rendere statica la vita di un uomo. Questo stesso fatto, però, in relazione al movimento dell'ambiente e dell'individuo stesso, può determinare ulteriore discrepanza e disagio e quindi infelicità, cosa che rimette in movimento il processo di miglioramento. Si potrebbe pensare allo "stato di felicità" come ad un sistema in equilibrio che, mediante continue oscillazioni e retroazioni, è sempre in movimento, tendendo a raggiungere una omeostasi che viene poi sempre messa in crisi.

Vi è però da osservare che l'attitudine alla felicità, alla soddisfazione e all'ottimismo, cioè ad uno stile cognitivo che porta a questi stati psichici, è nella storia di un individuo una caratteristica assai stabile in età adulta. Una caratteristica che non rende affatto inerte l'individuo, ma risulta utile sia per la sua realizzazione sociale che per la salute fisica e psichica. Quanto alla possibilità di modificare la soddisfazione per la vita e l'attitudine a considerarsi felici, esistono molti lavori che, oltre a sottolineare l'inerzia di questi stati d'animo, li considerano poco influenzabili da fattori ambientali. Anche i problemi di salute possono considerarsi come fatti accidentali che non incidono sul giudizio globale che uno ha di sé. In sostanza, fatti negativi o positivi, esterni o interni, harmo un effetto momentaneo sulla felicità, e poi per un meccanismo di riaggiustamento o di confronto o di riadattamento e di abitudine al nuovo, lo stato psichico e le modalità di fronteggiare l'ambiente ritornano come prima (Briclanan & Campbell, 1971). Naturalmente fanno eccezione a queste considerazioni gli stati estremi, cioè grande miseria o grande benessere malattie molto gravi o eventi sconvolgenti la vita di un individuo.

Più sensibile agli stimoli esterni e quindi all'educazione è il periodo giovanile, ove si strutturano la personalità cognitiva, le abilità sociali e gli stili di comportamento di un individuo. In seguito, poi, il comportamento rimane stabile fino a quando una situazione di grande crisi, malattie croniche invalidanti o l'avvicinarsi della morte durante la vecchiaia non rimettono tutto in discussione. Quindi l'attitudine alla felicità, i presupposti cognitivi e comportamentali che portano alla gioia e alla soddisfazione per la propria vita sembra che, entro certi limiti e maggiormente in certi periodi e condizioni, possano essere cambiati. Cambiare vuol dire, qui, apprendere ed essere sensibili all'insegnamento e alle influenze ambientali. Recentemente, Meyers e Diener (1995) hanno presentato gli elementi di una teoria della felicità basata sull'apprendimento. In essa viene riconosciuta l'importanza dell'adattamento, di una visione culturale generale e dei risultati personali che possono essere raggiunti nella vita.

Si può aumentare la "Felicità" per migliorare la Qualità della Vita?

Abbiamo cercato di esaminare un numero considerevole di lavori trovati (dal gennaio 1987 al giugno 1994), coniugando le voci: apprendimento, insegnamento, educazione, psicoterapia, con felicità, soddisfazione per la vita, benessere soggettivo e QdV. Ponendo in relazione queste ultime voci con le voci

apprendimento= 92 lavori

insegnamento = 49 lavori

educazione = 172 lavori

psicoterapia = 32 lavori

Totale = 345 lavori

In seguito sono stati presi in considerazione una serie di riassunti e lavori ottenuti con Medline, che dal gennaio al maggio 1995 erano cosi distribuiti:

Qualità della Vita e psicologia 149

Qualità della vita e comportamento 43

Felicità 68

Un'altra ricerca sempre con Medline dal giugno al novembre 1995, sotto le voci Qualità della Vita, Apprendimento e Felicità ci ha permesso di prendere visione di altri 74 studi. In precedenza si era anche esaminata una serie di lavori sulla QdV in rapporto allo stato di salute in questi ultimi anni. Si sono visti anche alcuni volumi fra i più interessanti, oltre alla rivista Qualitv ofLife Research. Siamo coscienti che la mole di pubblicazioni è notevolissima e che è praticamente impossibile raggiungerle tutte (Goldwurm, 1992, 1994; Goldwurm & Pesenti, 1994; Goldwurm & Gémez-Ocaùa, 1995).

Da questo lavoro, tuttavia, possiamo trarre qualche considerazione. Gli studi che affrontano il modo di aumentare la felicità personale cosi come l'abbiamo intesa, in soggetti adulti normali, finora sono relativamente assai pochi. Vi è invece una gran mole di lavori in soggetti con malattie croniche e in soggetti anziani, in particolare in soggetti terminali o che comunque hanno davanti a loro lo spettro della morte.

Vi sono però vari lavori che descrivono dei "training prepensionamento" in soggetti anziani, mettendo in luce la loro validità per preparare il soggetto al successivo periodo di vecchiaia. Così anche per i soggetti disabili vengono fatti molti sforzi per aiutarli a migliorare la loro QdV. Anche la condizione femminile è affrontata in numerosi lavori, sia sotto il profilo delle donne malate (specie di cancro al seno), sia delle donne anziane o delle donne che svolgono ruoli diversi (quello più tradizionalmente femminile, quello più tradizionalmente maschile oppure misto). Alcuni lavori confrontano le popolazioni asiatiche (Koreani, Thailandesi, Indiani) con quelle americane, ora mettendo in rilievo l'importanza del background filosofico (per esempio, il buddismo), ora la ricchezza emergente o il caos strutturale di alcuni conglomerati urbani, come Bangkok.

Numerosissimi lavori sono poi dedicati alla scuola, all'educazione, sia per quanto riguarda più in generale la promozione della salute e della QdV, sia più specificamente la soddisfazione della vita e quindi la futura felicità. Questo settore pedagogico che, a mio avviso, dimostra l'importanza dell'insegnamento e dell'apprendimento nel modificare la QdV, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, non può essere adeguatamente affrontato in questo articolo. Viene però preso in considerazione assieme al problema degli anziani, dei malati cronici e terminali in altri articoli di questo volume, e ciò può dare ulteriore materiale di riflessione per psicologi e psicoterapeuti, oltre che per medici e pedagoghi. In conclusione, da tutti questi lavori si trae la convinzione che è possibile e necessario intervenire ed aiutare le persone che non hanno raggiunto, o che stanno perdendo, o hanno perduto un adeguato livello di QdV. E questo non solo provvedendo ad aiuti materiali o interventi sui fattori oggettivi che caratterizzano la nostra QdV, ma anche su quelle abilità psichiche, su quei comportamenti e stili cognitivi che influenzano il nucleo psicologico soggettivo personale della QdV, il sentimento e il giudizio sulla vita che determinano la nostra "felicità".

In questa prospettiva è utile, come fa Veenhoven (1991), enucleare quelle qualità che predispongono alla felicità e possono contribuire ad aumentarne il livello. Qualità che possono essere insegnate ed apprese specie nei periodi di formazione della personalità o nei momenti di crisi e di declino psicofisico. Oltre alla natura psicologica di queste qualità, si può notare come il loro apprendimento possa costituire uno fra i più importanti obiettivi di molti interventi psicoterapeutici. Può esservi dunque una convergenza di scopi. Una psicoterapia che cerca di modificare uno stato di disagio, di ansia e di depressione, alla fine si propone di rendere più felice il proprio cliente. Questo, in realtà, per il paziente nevrotico può essere comprensibile: l'intervento sulla patologia mentale e quello sulla creazione di felicità vanno di pari passo e agiscono allo stesso livello mentale. Forse per questo è sorprendente trovare pochi lavori in psichiatria che focalizzino l'obiettivo di rendere felici i clienti: sembra intuitivo che lo scopo della terapia sia quello, anche se talvolta non lo è. Non è lo stesso, però, per i pazienti psicotici, come rivelano Skantze et al. (1992): la terapia sia farmacologica che psicosociale, negli psicotici, spesso raggiunge risultati di "normalizzazione", ma non quelli di rendere felice il paziente, anzi frequentemente non tiene conto della sua soggettività, dei suoi desideri, di ciò che ritiene possa dargli piacere e felicità.

Anche in questo caso vi sono relativamente pochi lavori in merito (Goldwurm & Gòmez-Ocaùa, 1995). Probabilmente ciò è dovuto al fatto che, nel progetto terapeutico verso lo psicotico, conta la soggettività del terapeuta come metro di paragone, mentre quella del paziente, appunto, èconsiderata "folle", non degna di considerazione perchè spesso inattendibile. Inoltre questi soggetti non hanno potere contrattuale neppure nell'ambito familiare. Diversa, invece, è la mole di lavori sui pazienti con disturbi fisici e con trattamenti farmacologici. Mano a mano che il tradizionale potere medico diminuisce, e che le industrie farmaceutiche in concorrenza fra loro si fanno più accorte, la soggettività del cliente assume rilievo e il problema della qualità della sua vita diventa importante quanto quello della sua lunghezza (Goldwiìrm & Pesenti, 1994). E, come nota Sartorius (1993), ciò è importante anche a livello di prevenzione delle malattie, giustificando l'interesse attuale della medicina per la QdV, i fattori che la determinano e gli indicatori che la misurano. Ponendo però come fisse le variabili di carattere socineconomico e di salute psicofisica, come osserva Veenhoven, sono relativamente assai pochi i lavori che si propongono di aumentare la felicità personale, l'aspetto soggettivo della QdV, in soggetti normali in cui un atteggiamento infelice con il suo corredo di ansia, depressione ed altri comportamenti anomali, può essere un fattore di rischio anche per le malattie somatiche. Vorrei ricordare, per inciso, due lavori di Eysenck et al. (Eysenck & GrossartbMaticek, 1991; Grossarth-Maticek & Eysenck, 1991) sui tratti di personalità che facilitano la comparsa del cancro e di malattie cardiovascolari. Quindi, sia dal punto di vista della Psicologia, della Psicologia della Salute che della Medicina Comportamentale, è importante a mio avviso preparare dei programmi che entrino nel cuore del problema della QdV, e cioè si pongano l'obiettivo di aumentare la felicità personale.

Secondo Veenhoven, già dagli anni '70 sono apparsi sulla scena training di felicità, nella presunzione che questa possa essere appresa. Già gli antichi filosofi raccomandavano uno stile di vita sobrio e contemplativo, un carattere disciplinato e una visione filosofica della vita positiva (Fernandez-Daza, 1994). Oggigiorno si pensa, come si è detto, a qualità psicologiche che, se apprese, possono predisporre ad una vita più felice. È difficile, tuttavia, trovare un modello ideale. Piuttosto pedagoghi, educatori e psicoterapeuti pensano ad adattare l'obiettivo alle preferenze personali, alle capacità di ogni individuo e alle varie situazioni in cui viene a trovarsi. Training individuali sono più adatti a questo proposito che non libri generici sul come diventare felici. Veenhoven sottolinea come vi siano qualità che si possono apprendere e predispongono ad una vita felice. Per esempio, la capacità di contatti sociali, di realizzare relazioni umane stabili. Possono essere appresi o modificati tratti di personalità e stili di vita adeguati, caratteristiche come "l'integrità della propria identità", "la forza dell'Io" "la maturità mentale", "il controllo interno", "le abilità sociali' " "l'attività", "l'apertura mentale".

Aspetti negativi, invece, possono essere "l'ignoranza", "l'odio" "la mancanza di controllo", che riducono le esperienze gratificanti in molti casi. Viene notato ancora come l'apprendere qualità positive atte a favorire una vita felice faccia parte dei programmi di psicoterapia e particolarmente di quelli contro l'ansia e la depressione. Aumentare i rinforzi positivi e diminuire quelli negativi, aumentare le attività, individuando quelle positive e aumentare le abilità sociali per procurarsi questi rinforzi gratificanti, aumentare l'autoefficacia, l'autostima, l'autocontrollo, migliorare l'attribuzione e il pensare in positivo ottimisticamente, sostituire i pensieri disfunzionali automatici e le idee iirazionali, queste ed altre sono tutte modalità terapeutiche che fanno parte del bagaglio terapeutico cognitivo-comportamentale.

Trattando l'ansia e la depressione e modificando uno stile di vita disadattivo, si avvia il cliente ad un maggior stato di felicità, e questa felicità costituisce in sostanza per l'uomo il suo obiettivo e il rinforzo finale al suo lavoro di cambiamento. Coloro che sono scettici sulle possibilità di cambiamento di soggetti rigidi, come sono in particolare gli infelici, o con troppe variabili perché possa essere colto il motivo della loro infelicità, portano come prova il fallimento di alcune terapie, nonché il fatto che gran parte dell'educazione nei primi anni di vita utili sia fatta nell'ambito incontrollabile della famiglia e che quindi molti programmi educativi non raggiungano il loro scopo, e che infine l'attitudine alla felicità o infelicità sia un carattere molto stabile e difficilmente modificabile. Coloro che non sono scettici portano al contrario prove opposte: l'utilità di molti interventi psicoterapici, il fatto che nell'educazione familiare vi siano sforzi per interventi controllabili, che l'educazione possa essere efficace e che in sostanza l'uomo possa cambiare e costruirsi la sua felicità.

Programmi per aumentare la "Felicità" personale: approcci comportamentali e cognitivi

Fordyce è dell'opinione che nell'uomo normale molti elementi di felicità siano determinati "accidentalmente", senza alcuna consapevolezza e senza un piano per aumentare la propria felicità. Partendo dall'ipotesi che la felicità possa essere aumentata mediante un training razionale e sistematico, Fordyce è forse lo studioso che più si è occupato di elaborare dei programmi atti ad aumentare la felicità personale (Fordyce, 1977; 1983; 1988). Nei suoi studi durati più di un ventennio, ha realizzato diversi programmi per studenti di varie età, elaborando i dati statisticamente e raggiungendo anche un ragionevole follow up positivo. Nel suo complesso, sembra che il metodo usato sia corretto, che i risultati raggiunti siano positivi e abbastanza durevoli e che questi studi contribuiscano a dimostrare la possibilità di apprendere "la felicità", migliorandola nei soggetti normali e anche migliorando contemporaneamente alcuni aspetti della salute mentale. Il pacchetto usato ci sembra possa essere utile per gruppi di popolazione normale, ma anche per soggetti che soffrono di disturbi psichici. Ovviamente in questo caso devono essere adattati ad ogni singolo soggetto e integrati dalle strategie e tecniche terapeutiche cognitivo-comportamentali. Mi riferisco a queste poiché il programma di Fordyce è completamente comportamentale e cognitivo e molti aspetti di esso già rientrano nel nostro bagaglio terapeutico. Fordyce elaborò il suo programma basandosi sui numerosi precedenti lavori che cercano di definire le caratteristiche delle persone felici. Esiste uno stato d'animo felice a breve termine (oggetto anche di vari studi). Ma la felicità a cui ci si riferisce qui è una sensazione generale percepita più a lungo termine, di benessere emotivo e contentezza verso la vita e che rappresenta un indice globale di soddisfazione per la vita.

Vari autori, come Campbell et al. (1976), pensano che la felicità sia determinata dalla somma di circostanze vitali positive del tutto oggettive. Altri, come Kammann (1983), ritengono che la felicità risulti dall'interpretazione soggettiva che un individuo fa delle circostanze oggettive, piuttosto che non da tali circostanze in sé e per sé. Una teoria mista accettata da Fordyce e che a me sembra più corretta include circostanze oggettive, ma anche percezioni individuali e attitudini nell'ambito di un temperamento di base. Tuttavia, benché complessi possano essere i fattori, il risultato è semplice: una sensazione soggettiva di benessere durevole. Si può naturalmente notare come siano più altamente correlati con la felicità una migliore salute, più alti guadagni, grande soddisfazione a livello lavorativo, duratura gioia matrimoniale ed elevato status sociale. Ma, date le condizioni di base standard e stabili, come si può intervenire per aumentare lo stato di felicità di un individuo? Fordyce elabora un programma che subisce alcune modificazioni nel corso dei vari studi, ma che può essere cosi riassunto:

1) un'educazione alla felicità mediante letture e istruzioni, che pongono il problema e permettono un'analisi del proprio stato di felicità di ciò che manca e di ciò che si potrebbe realizzare;

2) il programma di base di 14 caratteristiche altamente tipiche di soggetti felici che l'individuo medio può emulare. I 14 principi base della felicità sono:

1) tenersi occupati e più attivi

2) spendere più tempo nella socializzazione

3) essere produttivi in un lavoro significativo

4) essere meglio organizzati e pianificare le cose

5) bloccare le preoccupazioni

6) abbassare le aspettative e le aspirazioni

7) sviluppare un pensiero ottimistico e positivo

8) essere orientati sul presente

9) lavorare su una personalità sana

10) sviluppare una personalità estroversa e socievole

11) essere se stessi

12) eliminare problemi e sentimenti negativi

13) le relazioni intime sono il numero uno delle sorgenti di felicità

14) mettere la felicità come la priorità più importante.

Su ciascuno di questi principi vengono date dettagliate spiegazioni: si ricerca il loro Rationale, il perché agiscono sulle persone felici e si insegnano specifiche tecniche comportamentali e cognitive per aiutare a raggiungerli. Si invitano quindi i soggetti ad un lavoro pratico giornaliero per apprendere a realizzare, nella loro specifica vita individuale, questi principi;

3) un programma di attività personalizzato, che si basa su una lista personale di attività che usualmente li rendono felici, che potrebbero fare ogni giorno e che normalmente non trovano il tempo per fare. I soggetti sono istruiti a prendere dalla lista tre attività ogni giorno ed eseguirle, spendendo cosi maggior tempo in attività che danno gioia.

I primi studi duravano due settimane, i successivi molto di più (6/11 sett.) e potevano essere continuati volontariamente. Il miglioramento della felicità veniva valutato con l'HappinessMeasures, la Depression Adjective Gheck Liste il S~lfDescription Jnventory nonché da varie modalità di resoconto verbale (Fordyce, 1983). In quest'ultimo caso i partecipanti indicano due modalità principali in cui si realizzano gli effetti del programma: a) quello educativo, b) quello dell'uso dei principi base che ha promosso una varietà di cambiamenti comportamentali e attitudinali che conducono ad una più grande felicità. Questi studi nel complesso hanno dimostrato che l'informazione e l'allenamento sul programma di base (14 principi) aumenta significativamente la felicità. Quest'aumento èmaggiore con l'uso delle tecniche comportamentali rispetto alla semplice esposizione ai dati informativi ed è ancor maggiore rispetto ai gruppi di controllo che avevano avuto solo stimoli suggestivi. Un controllo a 9-18 mesi ha mostrato un buon mantenimento dei risultati raggiunti. Naturalmente, l'analisi dei dati ha rilevato come alcune voci siano ritenute più efficaci di altre, ma ha pure dimostrato la variabilità delle scelte individuali, e cioè gli individui sottoposti al programma scelgono e valutano più efficaci quei principi e quegli allenamenti che correggono i loro punti deboli rispetto alla felicità personale. Infine in uno studio è stato rilevato come anche la salute mentale venga migliorata (nei casi ove questa si trovi disturbata) particolarmente diminuendo il livello di ansietà e di depressione.

Il training secondo Fordyce mostrerebbe almeno come aspetto secondario una funzione di regolazione della salute. In sostanza Fordyce ha elaborato un programma di intervento in buona parte comportamentale e per altro verso tipicamente cognitivo: pacchetto valido in generale, ma che può essere anche suddiviso e ritagliato su misura dell'individuo e dei suoi bisogni specifici.

Smith e Compton (1995) hanno confermato e migliorato i risultati di Fordyce, investigando l'impatto che la meditazione poteva avere sul suo Personal Happiness Enhancement Program (PHEP). Valutando tre gruppi di soggetti con HappinessMeasure, Psychap Jnventory, Beck Depression Jnventor e State- Trait Anxiety Scale, harmo trovato che il primo gruppo sottoposto al PHEP più esercizi di meditazione mostrava migliori risultati rispetto al secondo gruppo trattato con solo PHEP di Fordyce. Il secondo gruppo a sua volta era significativamente migliore in tutte le misure (eccetto che per l'ansietà di stato) rispetto al terzo gruppo di controllo.

Proseguendo nella nostra ricerca abbiamo trovato vari Autori che hanno cercato dimostrazioni sperimentali alla possibilità di far "apprendere la felicità". Alcuni si sono serviti di metodi comportamentali, altri di metodi cognitivi. A nostro avviso, in sostanza tutti hanno usato un metodo misto: cognitivo e comportamentale, ora sottolineando più un aspetto dell'altro. Per esempio Johnson (1981) ha usato l'assertività. Leaf et al. (1992) hanno dimostrato che la Rationai Emotive Therapyed esercizi di Training Assertivo, simulanti una terapia di gruppo in studenti di psicologia, diminuivano il disagio emotivo, aumentavano l'autostima ed in particolare la soddisfazione per la vita.

Reich e Zautra (1981) hanno focalizzato i loro esperimenti sulle "attività soddisfacenti". Addestrando gruppi di studenti con un certo numero di attività piacevoli, notarono un aumento del benessere soggettivo, significativo rispetto al gruppo di controllo. Quanto alla riduzione del disagio e dell'ansia, ciò avveniva con maggiore intensità e frequenza nei soggetti che precedentemente nella vita avevano avuto un considerevole numero di stress, rispetto a coloro che ne avevano avuti pochi. In tal modo dimostrarono una relazione fra eventi della vita, attività personale e misure del benessere psicologico. Gli Autori hanno posto poi l'accento sul fatto che l'uso di attività piacevoli autoselezionate, cambiava le aspettative di rinforzo dall'esterno all'interno, cioè modificava il "locus of control", generando in tal modo soddisfazione e felicità. Questa componente del benessere secondo Reich e Zautra, non sembra collegata alla componente negativa, quella cioè che registra l'impatto delle esperienze dolorose, stressanti nella vita, e pertanto non serve a diminuire l'ansia. Tuttavia un'attivazione positiva successiva della prima componente serve a ristabilire l'equilibrio che ènecessario a sostenere il benessere.

Gli Autori hanno messo in evidenza come queste procedure assomigliano a quelle usate nella psicoterapia della depressione. Il ruolo della cognitività è evidente anche in questi lavori che metodologicamente si basano più sull'azione e il comportamento. Molti lavori oggigiorno sono orientati più verso uno studio cognitivo della "Felicità" e della Qualità della Vita. Cercheremo di citarne alcuni che ci sono sembrati significativi. Secondo Seidlitz e Diener (1993), le persone felici e quelle infelici si distinguono fra loro, poiché le prime ricordano più eventi della vita positivi e le seconde più eventi negativi. In alcuni studi essi dimostrano l'importanza dell'incidenza reale degli eventi e soprattutto della loro interpretazione soggettiva nel determinare le differenze nei ricordi e quindi nel benessere soggettivo, nella soddisfazione e nella felicità. Non sembra invece contribuire a queste differenze la ripetizione del ricordo nel tempo. Essi avanzano poi delle ipotesi che le differenze nel ricordare eventi favorevoli o sfavorevoli siano dovute a differenti organizzazioni della memoria o differenti schemi del sé. La memoria appare dunque un fattore importante nel prepararsi a fronteggiare gli stress. Le esperienze passate possono determinare le aspettative e l'interpretazione degli eventi presenti. Può essere, ad esempio, influenzata la valutazione della controllabilità degli eventi (cioè il "locus of control") e può portare in gioco la speranza.

Secondo Sara Staats la speranza è un'importante componente del benessere soggettivo. Essa viene definita una combinazione di cognizioni ed affetti e viene fatto notare quanto sia importante dal punto di vista medico, tanto perché influenza le risposte immunitarie quanto perché ci pone in grado di fronteggiare meglio i vari aspetti delle malattie e della morte. La speranza è l'aspettativa di eventi futuri desiderabili e operazionalmente può essere definita come la differenza fra effetti positivi ed effetti negativi attesi. Essa è correlata con altre misure del benessere. Anche l'età ècorrelata con la speranza e significativamente con la felicità. L'esame delle intercorrelazioni rivela che l'aumento della felicità e la tendenza ad un aumento della speranza sono dovute ad una diminuzione sia di eventi negativi sia dell'aspettativa di eventi negativi. Negare un passato infelice, essere ottimisti verso il futuro, apprendere un efficace stile di vita che ignora il negativo e i suoi effetti, può essere una possibile spiegazione.

Un'altra dimensione cognitiva interessante è quella studiata da Mikulincer e Peer-Goldin (19~). Questi Autori pongono in relazione l'esperienza di felicità e la congruenza fra percezione del "Sé operativo" e la rappresentazione del "Sé ideale". Basandosi sulla teoria della discrepanza del Sé di Higgins (1987), essi dimostrano come un breve stato di felicità è correlabile con la congruenza fra la percezione del Sé operativo in un dato evento e la rappresentazione del Sé ideale. In questo lavoro gli Autori si riferiscono ad uno stato di felicità breve, però pongono la questione del rapporto fra una felicità di stato e una felicità di tratto. La felicità di tratto potrebbe essere la somma di tante felicitàdi stato, cioè le persone felici sono quelle che sperimentano molti momenti felici, la congruenza del Sé operativo e di quello ideale sarebbe cronica. Oppure, come altra ipotesi, la felicità di tratto potrebbe influenzare il modo come le persone reagiscono agli eventi, vale a dire la congruenza fra un Sé operativo abituale e un Sé ideale. È evidente che risposte a queste domande e conferme di questi lavori potrebbero indirizzare interventi per modificare sia la felicità di stato che la felicità di tratto.

Lichter, Haye e Kammann (1980), autori neozelandesi, partono dalla osservazione che vi è scarsa correlazione fra ambiente esterno e felicità o benessere soggettivo (Andrews & Withey, 1976). Le persone provano piacere non dalle cose o dagli eventi reali, ma dal come esse le vedono, dal come le interpretano e le valutano. Secondo Kammann (1983), paragonando Nord-Americani e Neozelandesi, le circostanze di vita oggettive sono molto poco correlate col senso di benessere soggettivo. Lichter, Haye e Kammann (1980) cercano di incrementare, perciò, lo stato di felicità per via cognitiva con un primo esperimento, facendo un corso basato su una lista di credenze irrazionali ricavate dal libro di Dyer (1976) sulle zone erronee. In questo corso della durata di quattro settimane vengono presentate e discusse le idee irrazionali a gruppi di studenti, i quali ricevono poi il compito di fare esercizi a domicilio individuando situazioni irritanti o preoccupanti, seguiti a volte da brevi role-play. Si misuravano prima e dopo il corso, le credenze, la felicità e le aree di soddisfazione, concludendo infine con un follow up a sei settimane. Il risultato era un significativo e relativamenteduraturo aumento della felicità. Un altro esperimento non si basava tanto, come il precedente, sulla possibilità di modificare credenze e aspettative con la riflessione e il ragionamento, quanto di indurre sentimenti positivi mediante la ripetizione immaginativa di affermazioni di sentimenti positivi. A questo scopo venivano elaborate tre liste di diversa intensità di affermazioni opposte a quelle che caratterizzano la depressione. La loro ripetizione giomaliera, accompagnata da un diario quotidiano, per due settimane, determinava un significativo aumento degli indici di felicità, soddisfazione e umore positivo. Questi dati fanno sostenere agli Autori la possibilità che la felicità abbia una mediazione cognitiva, tuttavia altre ipotesi possono essere avanzate tanto che gli Autori non propongono l'utilità di "corsi di felicità".

Aspetti critici di un problema aperto

Argvle e Martin (1991) discutendo i dati di Lichter et al. affermano che anche dal loro punto di vista molte persone non hanno alcun bisogno di training o di terapie per essere felici. Ciò che necessita alla gente per aumentare la propria felicità è migliorare le proprie relazioni sociali, avere un buon lavoro intrinsecamente e socialmente soddisfacente, e avere del tempo libero da occupare tanto in modo attivo quanto rilassante. Quello che non è chiaro è se le persone debbano tentare di cambiare il loro pattern cognitivo in prima istanza per migliorare il loro comportamento, o se i cambiamenti comportamentali vanno fatti in modo che ne seguano i miglioramenti cognitivi. È probabile che la soluzione sia una unificazione dei due approcci, in analogia con la terapia cognitiva che, a dispetto del suo nome, combina quasi sempre un approccio cognitivo ed uno comportamentale (Sibilia et al., 1995). Si potrebbe arguire comunque con Argvle eMartin che i due approcci sono complemetari e che la loro combinazione è molto più che la somma delle due parti.

Gli Autori che hanno cercato di dimostrare la possibilità di aumentare lo stato di felicità sono comunque assai prudenti nelle conclusioni. Ammettono la possibilità di altre ipotesi e manifestano dubbi metodologici; soprattutto non si lasciano sedurre dalla facilità e semplicità di applicazione pratica dei loro metodi. Riaffiora sempre la regola d'oro dell'applicazione clinica: ritagliare ogni intervento sulla persona, la sua storia, la sua personalità, i suoi bisogni.

Alcune obiezioni mi sembrano tuttavia importanti nel contesto sperimentale. Fordyce rilevava ad esempio l'impossibilità di misurare la felicità se non con metodi soggettivi, come le autovalutazioni (self-report), ed inoltre notava le possibilità di errore legate al metodo di somministrazione delle istruzioni a causa di una difficoltà di standardizzazione, oppure dovute agli effetti suggestivi sia dell'operatore che dell'aspettativa del soggetto. Gli Autori cercano di superare in vari modi questi scogli, che in ogni caso si ritrovano assai spesso nelle ricerche psicologiche. Nella pratica psicoterapica poi, basta pensare ai problemi sollevati dall'influenza sociale nella relazione terapeutica e dall'interazione interpersonale come fattori di cambiamento e di terapia (Goldwurm, 1995). E interessante notare che le questioni fin qui trattate sono assai discusse e rimangono problemi aperti.

Recentemente uno studioso viennese, Michael Freund (1990), ha ripreso le critiche metodologiche alle ricerche scientifiche sulla felicità, ma più significativamente ha messo in discussione alcuni presupposti filosofici. Vi è il rischio, egli dice, di elevare a scienza la banale definizione che la felicità è quando la gente dice di essere felice. Negli studi con le autovalutazioni (self-report) vi sono troppe mediazioni che guidano, filtrano o distorcono le nostre interpretazioni di ciò che noi sentiamo o percepiamo. Le risposte alle interviste sono fortemente deviate verso risposte positive, poiché èmessa in gioco la desiderabilità sociale e cioè i soggetti tendono a dire ciò che pensano ci si aspetti da loro. In questo quadro ovviamente è determinante l'ambiente e le modalità della conversazione (telefonate, brevi incontri, lunghe interviste) e la natura dell'interazione fra intervistatore e intervistato. Freund porta vari esempi di queste difficoltà, che in qualche modo scoraggerebbero ogni tentativo di conoscere scientificamente la felicità e quindi di avere la possibilità di prevedere gli eventi che la modificano e di creare strumenti scientifici per aumentarla.

Ovviamente di questo parere non sono i molti psicologi che tentano da tempo di trovare soluzioni sempre più adeguate a questo problema. Tuttavia, il cuore del suo ragionamento è quello filosofico (che a suo dire gli psicologi cercano di accantonare come astratto e scientificamente insignificante). Dopo i filosofi classici razionalisti ed empiristi, il concetto di felicità come costrutto empirico e come summum bonum e messo in crisi da Marx, da Freud e dai teorici critici della scuola di Francoforte citando particolarmente Marcuse. Per Marx, l'evoluzione della società verso una sempre più marcata alienazione del lavoro e dei rapporti sociali, determinata dallo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, crea negli uomini una "falsa coscienza". Vi è una incongruenza fra ciò che l'uomo pensa di fare e la funzione sociale oggettiva dei suoi atti. Perciò la felicità e la soddisfazione, la trova in situazioni sostitutive di una vera prassi sociale capace di realizzare le sue potenzialità umane.

Freud dà invece una spiegazione psicologica della distorta percezione della realtà e parla di un travisamento illusorio della realtà, verso la sublimazione dell'energia istintuale per ottenere piacere.

Marcuse infine estende l'analisi freudiana e la integra con il concetto di falsa coscienza di Marx, per dare conto dei falsi bisogni e delle illusioni che si osservano nella vita degli uomini che ritengono reali i loro bisogni indotti. Degradazioni, surrogati della sessualità, sacrifici senza significato, eroismi in guerra, sono per Marcuse dei falsi piaceri.

In sostanza queste proposizioni filosofiche critiche mettono in guardia dal prendere per autentica e vera l'esperienza soggettiva del benessere e quindi mettono in discussione globalmente la veridicità delle misure psicologiche della felicità. In definitiva, sembra ancora problematico affermare se siamo in grado di sapere se siamo veramente felici o piuttosto dobbiamo accontentarci di crederlo soltanto, in balia come siamo di un mondo esterno manipolatore che, malgrado tutto, influenza pesantemente in nostro modo di pensare e di sentire.

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Una versione preliminare del presente articolo è stata presentata al IVcongresso internazionale dei paesi di lingua latina ~'Latini dies'; 23-26 febbraio 1995, Guadalajara, Mexico. Le richieste di estratti possono essere indirizzate a: Gian Franco Goldwurm, ASIPSE Via L. Settala 43, 20100 Milano.